TRAILRUNNING

Guendalina Sibona: "Il viaggio non ha fine, felicità è continuare a camminare"

La ultrarunner e scrittrice milanese ripercorre in esclusiva per sportmediaset.it la sua esperienza nella prova valdostana

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Guendalina Sibona: "Il viaggio non ha fine, felicità è continuare a camminare" - foto 1
© Guendalina Sibona-Marco Beretta

Non c'è due senza tre ed il quarto... beh, meglio fermarsi qui, per ora! Dopo due partecipazioni al Tor des Géants, Guendalina Sibona ha fatto lo scorso mese di settembre... l'upgrade, lanciandosi nell'avventura del Tor des Glaciers, versione estrema (!) del già proibitivo classico dell'endurance running sulle Alte Vie della Valle d'Aosta: 450 chilometri contro 330, a quote più alte e non solo. Ce n'era abbastanza, dal nostro punto di vista, per chiedere alla ultrarunner milanese un racconto della sua avventura in esclusiva per sportmediaset.it. Contando sulla sua abilità nel tradurre sulla carta (ah no, sullo schermo di un pc, al giorno d'oggi va così) i passi fatti sul sentiero.

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© Guendalina Sibona-Marco Beretta

Le amicizie contano ed a volte - lo scoprirete leggendo - cantano anche! Un modo come un altro per avanzare lungo i 450 chilometri del Tor des Glaciers che Guendalina lo scorso mese di settembre ha affrontato per la prima volta. Subito finisher, come d'altra parte nelle sue due precedenti partecipazioni al Tor des Géants da 330 chilometri, la seconda delle quali (2021) raccontata lungo le pagine di "Un giorno ancora. Il mio viaggio dentro il Tor" (Edizioni Effedì). Dopo averne seguito la progressione lungo le Alte Vie valdostane, avevamo deciso di chiederle un "ampio" racconto della sua più recente avventura. In esclusiva per sportmediaset.it. La risposta, positiva, è arrivata praticamente subito. Il racconto stesso - quello che state per leggere - nel giro di un paio di settimane. Quelle che - crediamo - siano servite per lasciare che le emozioni vissute scendessero in profondità, per poi a tempo debito riemergere, come liberate del loro peso: a quel punto sì, pronte da trasferire nel racconto che segue. Come un'aspirina che si deposita incerta sul fondo del bicchiere: sfrigolando, per poi risalire come colonna leggera di bollicine, a guarire il corpo e l'anima.

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© Guendalina Sibona-Marco Beretta

Forse qualcuno ricorda ancora "Viaggio allucinante", film del 1966 il cui titolo originale era "Fantastic Voyage". Allucinante e fantastico: forse è la sintesi perfetta del viaggio di Guendalina che - di questo siamo invece piuttosto sicuri - apprezzerà la citazione cinematografica. Voi apprezzatene la "sofferta" premessa, i giorni e le ore prima del via e prima dell'incessante scorrere dei chilometri: quattrocentocinquanta, lo rimarchiamo ancora! Un racconto emozionale ed emozionato, scanzonato e irresistibilmente disincantato. E poi, se volete, il finale quasi improvviso e tranchant. Senza inutili e dispersive riflessioni post-gara. Perché, se un pochino abbiamo imparato a conoscere Guendalina, il traguardo è un dettaglio, un semplice punto di passaggio, magari da seminare in fretta. L'urgenza sfacciata è quella di ricominciare. Anzi, di continuare. Ed è per questo che, all'infuori di questa necessaria introduzione, anche noi ci siamo astenuti dal "costringere" l'avventura della nostra amica (e di sportmediaset.it) Guendalina, in un commento finale che non avrebbe rispettato lo spirito del suo racconto, non avrebbe tenuto conto della sua libertà di avanzare ancora. Un altro passo ancora. Eccolo che arriva.

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© Guendalina Sibona-Marco Beretta

UN PASSO ANCORA

di Guendalina Sibona

A due settimane dalla partenza del Tor des Glaciers, l'ultima cosa che vorrei è dover fare una gara del genere. Da mesi vivo in un frullatore. Troppe cose per la testa, pensieri, preoccupazioni, problemi. Un vortice di questioni da affrontare intorno e dentro di me. La mente che non tiene più le fila, il desiderio di sedersi, restare inermi e lasciare che tutto passi da solo. Non passa tutto da solo. Mai. Ad agosto, le ultime lunghe giornate di allenamento diventano un supplizio. Non ne ho voglia. Per la prima volta in vita mia mi pare di essere obbligata a correre per i monti, che invece è ciò che adoro fare. Cerco di convincere me stessa. Come posso non aver voglia di partire? Sono vuota, spompata, prosciugata dagli eventi. È necessaria un'inversione d'umore. È un lavoro che mi costa tantissimo. Accantono altri progetti, lascio indietro qualcosa e anche qualcuno. Metto tutta la mia concentrazione sull'obiettivo Glaciers. Mi preme arrivare alla vigilia del viaggio con la voglia di compierlo o so che sarà dannatamente complicato andare avanti. Inizio a perdermi studiando la mappa del percorso che, negli ultimi anni, ho attraversato più o meno tutto, preparo una tabella oraria per avere dei riferimenti, sistemo lo zaino, la borsa e il materiale che mi servirà. Sembra più facile rispetto a quando preparavo quello per il Tor des Géants, visto che avremo solo tre Basi Vita. Prendo appunti su cosa devo fare a ogni sosta, quante pile della frontale devo cambiare e mettere in saccoccia, dove sono i vestiti per il brutto tempo. La faccenda m'impegna molto, ma ora non mi sembra più di perdere tempo. Sto scivolando dentro l'avventura. Schematizzo, ipotizzo, analizzo. Alla fine, mi pare di avere tutto sotto controllo. La foto al ritiro pettorale ci ritrae in quattro. Marco, il mio compagno e già finisher nel 2019, Alessandro, Mela e io. Non abbiamo dormito gran che nel pomeriggio, ultimi preparativi: i kinocerotti, la crema Fissan, le spille da balia, l'adrenalina, il riso bianco, le uova soda, la schiacciatina e la Nutella. Sono pronta. Chiudo gli occhi e sento la voce di Gadin che tuona nel microfono. Il centro di Courmayeur è stipato di gente che, post Covid, fa ancora un certo effetto. Alessandro e io veniamo intercettati da due giornalisti che vogliono intervistarci. Al mio amico piazzano anche sulla testa un paio di cuffie rotonde e lo vedo mentre si prodiga in risposte articolate. Ci prende subito gusto. Io, invece, non ho molto da dire. Ho la testa vuota. Cosa mi aspetto? Tutte le idee che mi ero fatte a casa sono sparite nell'incertezza del crepuscolo. Non so che sarà, però non vedo l'ora di scoprirlo. Il conto alla rovescia non ha l'imminenza delle altre gare, ma i secondi si esauriscono ed esplode il boato della folla.

Via!

Siamo in centoquaranta a trotterellare per le strade di Courmayeur. Urla d'incitamento, mani tese, fotocamere puntate su di noi. E poi, inizia il sentiero e siamo soli. Quello che succederà nelle prossime centottantaquattro ore è un viaggio pazzesco che ha il valore più grande nel riuscire a sorprendermi. Ancora una volta. Nonostante io abbia già finito due edizioni del Tor. Nonostante su quell'avventura ci abbia scritto un libro e sia andata in giro a parlarne un sacco di volte nell'ultimo anno e mezzo. Nonostante i sentieri del Glaciers li avessi provati. Nonostante avessi tutti i miei calcoli in testa. Le Alte Vie ti sorprendono sempre perché non sai in che condizioni le calcherai, che compagni di avventura ti affiancheranno, che amici troverai in rifugio. Quando ho partecipato al Tor des Géants, pur non avendo pretese di classifica, avevo il mio obiettivo orario, quindi la dimensione della gara era sempre presente. Qui, invece, si perderà dopo la prima lunga salita. Il gruppo si sgranerà subito e da La Thuile in poi sarà come essere a zonzo per una settimana tra i monti per conto proprio.

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“Un giorno ancora” è il titolo del libro che ho scritto sul Tor des Géants, ma questo non è un concetto applicabile al Tor des Glaciers, dove i giorni e le notti non esistono, dove il tempo non ha la cadenza che conosciamo, dove ci si muove in una dimensione sospesa, che pare modellarsi sulla nostra pelle e sul nostro respiro. Una passeggiatona che non ha le tinte allegre e scanzonate della sorella 330. Non ci sono ristori e assistenze continue, i porti sicuri sono i rifugi come in tutte le avventure di montagna, chi ci riporta alla realtà sono i volti sorridenti dei gestori pronti ad accoglierci con piatti caldi e letti morbidi. Tra una capanna e l’altra, la grande solitudine che solo la montagna sa dare. Una solitudine che diventa immensità, simbiotica fusione tra noi e le rocce. Il vento ci sferza la faccia come fa con i tronchi dei larici. Come loro dobbiamo restare in piedi e poi, come i torrenti freddi, continuare a camminare. Un passo ancora. Quel che resta è un ricordo vivido, fatto di tante immagini, di sorrisi e lacrime masticate a denti stretti, di brividi d'emozione quando il sole che sorge accende l'orizzonte e scosse elettriche dai piedi al cervello, di abbracci e condivisione, che tenere tutto per se stessi mi pare anche un po' egoistico.

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Km 0. Il briefing pre gara ci dà una sola certezza: sole e cielo sereno fino a martedì.

Km 19. Col Chavanne, scolliniamo e piove. Il vento è un elefante che barrisce nella notte.

Km 33. In una La Thuile fantasma, ci ritroviamo Marco, Alessandro e io. Sosta tecnica per cambiare le calze (io), sostituire le pile alla frontale (Alessandro), guardarci con aria di superiorità perché non ha nessuna incombenza da sbrigare (Marco).

Km 42. Nessuno dorme la prima notte. Io sì: arrivo al Deffeyes che ho già il cervello in una morsa e le palpebre che scendono impietose. La sala è stipata di concorrenti infreddoliti che trangugiano pasta scotta. La scena ha le tinte alla Oliver Twist e una certa malinconia mi s'insinua nella testa.

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Km 47. Bel tempo fino a martedì. Il Col Planaval è bianco di neve. Attenzione in salita che è ripida, attenzione in discesa che è ancora più ripida.

Km 56. A Planaval tolgo le scarpe e, con orrore, scopro le prime due vesciche della mia vita. Guardo le mie comodissime New Balance nuove. Anche i bambini sanno che non si parte per una gara con le scarpe nuove. Le altre erano sfasciate e ho deciso di giocarmela così. Cazzata. Mi faccio crackers e maionese, che, si sa, un po' di maionese aggiusta tutto.

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Km 76. Al Lago Grato, il posto più in fondo di tutta la Valgrisenche, soffia un vento indemoniato. Sempre. Ma è un angolo talmente bello che un mesetto fa ci ho portato anche il cane per una notte in tenda. C'era un vento d'inferno anche allora e c'è mancato poco che volassimo via tutti: io, le orecchie di Ceres e la tenda. Stupendo!

Km 93. La luna stanotte si crede il sole e salgo al Col Bassac affascinata dallo spettacolo di quel che resta del ghiacciaio davanti a me nel riflesso di questa luce notturna. Sembra di camminare dentro un sogno.

Km 104. Meno male che sono in Fase Up, visto che al Benevolo, da brava milanese, ho fatto shopping - il Buff giallo del rifugio con i disegni dei segnavia - perché stanotte pare che abbiano spostato il Col Rosset un po' più in alto e un po' più in là. Continuare a camminare è un obbligo più che un consiglio.

Km 108. Il Rifugio Savoia mi riserva una sorpresa: spezzatino con patate.

Km 116. Ho già fatto amicizia con Mattia che, però, vuol sempre ciarlare di chilometri e dislivello e io mi scoccio e allungo il passo. Ora affianco Tiziano, dall'inconfondibile e per me magnetico accento veneto. Subito gli chiedo se conosce il mio amico Moreno, che di là verso est, lo conoscono tutti. Come a dire: "Sei di Milano, conosci Matteo?" Si, certo. Svariati. Ma di Moreno ce n'è uno e Tiziano non sa chi sia. Storco il naso ma gli concedo un'altra chances e se la gioca bene.

Km 120. Sulla salita per il Vittorio Emanuele, due turisti della domenica mi tartassano di domande: Cosa fate, dove dormite, quando mangiate, dove ti fermi stanotte? Forse mi chiedono anche perché. Signori, leggete il mio libro per scoprire i dettagli! Poi sento un rantolo e so immediatamente di cosa si tratti. Asma. Mi fermo, piego la testa verso il basso e cerco di controllare il respiro. Dalla bocca esce un gemito. È il segnale dell'inizio della crisi. Arrivare al rifugio mi costa una fatica pazzesca. La gola è chiusa come se qualcuno mi serrasse intorno le dita, il petto mi scoppia dal male, non posso tenere allacciato lo zaino o mi pare di esplodere. Mi serve un'ora di riposo.

Km 123. Il tratto fino allo Chabot è spettacolo puro. Il sole arde forte e il Gran Paradiso si staglia maestoso. Entro in rifugio, sentenziando che ho mangiato a sufficienza durante la sosta precedente, ma come posso rifiutare l'omelette? Nel dubbio, ci piazzo sopra anche una fetta di prosciutto. Un bicchiere di succo di frutta. C'è pure la torta al cioccolato. Giuro, però, che non chiedo la panna montata, per questa volta.

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Km 131. All'attacco della salita rocciosa al Col Neyron la quota inizia a giocarmi brutti scherzi - uno dei miei tanti punti deboli. Energie scomparse in un soffio, il passo si accorcia, la testa vola via come un palloncino sfuggito di mano. Saltello sulle rocce ma arranco quando la traccia spinge in alto. Parlo da sola a voce alta. Dopo questo colle, c'è il Loson. Quello va ancora più in alto, non voglio farlo. Quando scollino, andrò giù dall'altra parte. Mi sembra un buon piano. Quando sono su, tocco con una mano la catena, con l'altra la roccia. Mi calo nella discesa a imbuto. Una bella ferrata fino a giù. Mi diverto e recupero un po' di lucidità, quindi abbandono quel piano.

Km 138. Il Col Loson e io abbiamo un rapporto di amore e odio, che non mi aspetto nemmeno sia in esclusiva. Per fortuna mamma m'ha fatto la testa dura ed è lei ha portarmi fino al passo. Sono stremata, ma quando getto lo sguardo oltre so che è per questo che faccio questo sport. Per quell'orizzonte oltre il colle.

Km 142. Al Rifugio Sella, mi aspetta il mio amico Cesare, nel mentre ha fatto amicizia col mio amico Cine, che è lì per intervistare Quelli del Tor. Se la intendono perché non è ancora calata la notte e il Cine non ha ancora sentito Cesare russare. È solo questione di ore. Io mi faccio una bella ronfata e, quando mi sveglio, nel letto accanto si sta stiracchiando Marco.

Km 160. Base Vita di Cogne. Solo una breve sosta per cambiarci, risistemare l'attrezzatura e fare la conoscenza di Daniela e Claudia, due Volontor che siedono accanto a noi. Scambiamo due parole mentre rovescio una scatoletta di tonno nel riso bianco. Chiacchiero, mangio, mi sbrodolo e sono pronta a ripartire. "Ci vediamo a Gressoney!", mi saluta Daniela. Puoi scommetterci!

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Km 170. I primi raggi del sole si stirano nel cielo. Una mucca muggisce dando il benvenuto a un nuovo giorno. Faccio una foto, alla mucca, s'intende, che a noi milanesi le mucche fanno andare fuori di testa.

Km 180. Al Rifugio Miserin chiedo solo una Coca-Cola perché ho un po' di pesantezza di stomaco - forse l'olio del tonno che non ho scolato - ma poi una torta alle mele con tanto di panna montata transita davanti a me verso Mattia e cambio idea.

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Km 193. Fino al Colle Fricolla sono 1200 metri di dislivello. Una vallata da favola e poi un ultimo tratto di rocce. Sto bene e me la godo, ma vedo che Marco fatica a tenere il passo. Troppo sole per lui: è il suo punto debole da sempre. A un certo punto inchioda e indica un rametto per terra. "Guarda" mi dice con tono incerto "sembra la bacchetta di Harry Potter..." Okay, se avevo ancora qualche speranza che il sole non gli avesse sfrigolato il cervello, s'infrangono tutte con 'sta frase. "La bacchetta di..." ripete. Lo assecondo: "La bacchetta di sambuco?"

"Sì"

"Era di Silente" gli faccio e tiro dritto.

Come si dice? Bene ma non benissimo. E speriamo non peggiori.

L'acqua gelida del ruscello che più in alto saltella tra le rocce ci viene in aiuto e riporta Marco alla consapevolezza. Di qui alla fine, Harry Potter non sarà citato mai più.

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Km 200. Scolliniamo e siamo pronti per ravanare. Questo tratto è la zona più selvaggia e meno curata di tutto il giro. Tra l'erba alta, si perde facilmente la traccia. Le mucche la fanno da padrone. E son troppe anche per me. Il mio tendine sinistro inizia a ribellarsi dentro la scarpa: l'aggancio del tibiale, verso gli estensori delle dita è da sempre il mio tallone d'Achille. Ci mette duecento chilometri a infiammarsi. Guardo la tabella: ci siamo.

Km 206. La discesa è lunghissima e comunque non porta da nessuna parte, se non a una curva secca e poi si risale. Il sole è tramontato senza che ce ne accorgessimo.

Km 208. Ripartiamo dal posto con il nome più impronunciabile del giro, Dortoir Retempio, dopo aver provato i letti morbidissimi. Con noi c'è Mario, detto Marietto, che col Tor des Glaciers ha un conto in sospeso dal 2019. È uno di quelli rimasti fuori per cinque minuti dal cancello dello Champillon alla prima edizione. Si accoda a noi e ci segue mentre ravaniamo tra gli arbusti, dove la traccia non si vede.

Km 215. Ancora sterpaglie, la luna che illumina ma non svela, io che inizio a cantare per star sveglia, qualche concorrente fuori strada. "Da questa parte!" grido per farmi sentire e mi lancio tra i cespugli.

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Km 220. Discesa della Morte fino a Donnas. Millecinquecento metri in picchiata sui sassi. Agogno l'asfalto per la prima volta nella vita, ma quello sfugge. Sembra lì a cento metri, eppure una curva ci porta ancora giù, sul sentiero cattivo. E allora mi lagno. Ad alta voce. Ho male ai tendini e agli alluci e vaffanculo la discesa, che invece, di solito, è la parte che preferisco.

Km 226. Donnas, Base Vita. Come entro, vorrei uscire. Troppa gente, troppo casino. Assistenti che si affannano per aiutare concorrenti zombi. Teste che crollano sui tavoli, cerotti e vaselina, piedi nudi e sguardi vacui di chi guarda ma non vede. Troppo rumore.

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Km 239. A Sassa punto decisa al frigorifero dell’albergo. Pesco un Magnum al cioccolato bianco, ma poi l’occhio mi cade sui ghiaccioli: ci sono quelli blu. Non posso resistere: li compro entrambi e riparto. Con due gelati, due bastoncini senza bretelle e due mani.

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Km 246. La cresta che conduce al Rifugio Coda è uno spettacolo pazzesco, perché oggi, incredibilmente, non c’è nebbia, non ci sono nuvole, il sole illumina il Piemonte e la Valle d’Aosta e io vado avanti felice, nonostante un po' di sangue dal naso, superando anche. Entro in rifugio e sono a casa. Laura e Cristina mi accolgono come sempre con calore e costine alla birra.

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Km 255. Al Rifugio Barma faccio un po' di Pet Therapy abbracciata al golden retriver dei gestori, dormo e riparto con Marco. Da qui in poi cammineremo sempre insieme. Purtroppo scopriamo che Alessandro e Mela si sono ritirati prima di Donnas.

Km 261. Al Lago Chiaro c’è sempre gran festa e le fette di prosciutto a rosolare. Quelle che rimangono impresse nella memoria a chi passa di qua e anche a chi ha letto il mio libro.

Km 262. Posti intrisi di ricordi, alcuni stupendi, alcuni disperati. Li uni li tengo stretti, gli altri spero evaporino nella notte e non tornino a trafiggermi. Certi luoghi sono così, come vecchi amici che sussurrano all’orecchio e la Crenna du Ley ne ha di cose da gridarmi addosso.

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Km 264. Per distrarmi, do sfogo alla fantasia e decido di onorare uno dei tratti che mi resta nel cuore con un rap improvvisato.

"Marco devi fare la base, un sound ritmico, vedi tu, così incidiamo il pezzo."

Col cellulare, s’intende. Mentre camminiamo, ovvio. Un tentativo solo, mica siamo professionisti. Però la storia mi prende e decido di mandare un messaggio su Whatsapp. Qui Radio Glaciers, abbiamo appena composto un rap per voi. E via con la nenia.

Km 273. La nostra traccia va dritto dove è tutto sprangato per non far passare Quelli del Tor e la prende davvero larga per arrivare in cima al Lasoney. Improvvisamente alla collezione di dolori, si aggiunge il mal di schiena, mentre sono certa che qualche vescica si stia aprendo sotto i cerotti. In discesa, però, è il tendine sinistro che grida più forte di tutti.

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Km 287. Ultima Base Vita, Gressoney. Niente da fare: tutta 'sta socialità mi manda in botta. Mi getto in branda, ma prima che suoni la sveglia, Marco mi scuote allarmato. Mi tiro su con lo stesso umore di un'adolescente che viene svegliata dalla mamma per andare a scuola. E la sera prima s'è fatta anche un paio di canne di troppo. Presa male e rincoglionita.

"Perché mi hai svegliato? Che ore sono?" domando confusa.

"Non ti trovavo!" fa lui per tutta risposta.

"E perché mi cercavi?"

"Perché pensavo non avessi puntato la sveglia..." Lo fulmino con lo sguardo, certo che l'ho fatto. Un'adolescente in quello stato lì, di sicuro non ha voglia di parlare con nessuno. Cerco solo del caffè. Fuori dalla zona notte, c'è un casino mostruoso. Troppa gente, troppa luce, troppo frastuono. Quando ripartiamo, tiro dritto da sola. Sto a pezzi anche se Tobia, il fisioterapista, m'ha rattoppato con i kinocerotti dappertutto. Io li ho messi anche sulle scarpe, quelle vecchie visto il disastro con le nuove. Ma queste son vecchie davvero e piene di buchi. Anche gli alluci hanno qualcosa che non va, quando ci metto il peso è uno strazio. Mi viene da piangere. Non c’è nessuno intorno a me, perciò lascio scendere le lacrime. È sconforto. Incapacità di contrastare questo malessere. Ma subito diventano lacrime di rabbia: non voglio piangere, cazzo! Ho già gli occhi gonfi per il sonno, ci manca piangere! Ce l'ho con me stessa. Fanculo.

Km 295. C'è un alimentari aperto a Gressoney La Trinitè. Entro e chiedo un gelato. Hanno il biscotto e il Mottarello. Il Mottarello?! Roba di un'altra epoca! Prendo quello. Faccio per tirare fuori i soldi, quando un signore, che è appena entrato e mi sta squadrando, esclama: "Offro io!" Sono grata e ancora una volta sorpresa dalla generosità di persone sconosciute che incrocio lungo la via. Ho una collezione di incontri di questo tipo nelle mie partecipazioni al Tor e le ritengo tra le esperienze più belle che si possano fare. Ciao Signore del Mottarello!

Km 301. Al Rifugio Sitten ci arrivo con Marco. Lo fa apposta? Mi lascia andare avanti, poi, alla fine della salita, mi riprende. Come a dire che sono lenta. Ma adesso l'umore è a posto.

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Km 306. Sulla cresta rocciosa del Bettolina lo spettacolo è folle. Di qua la nebbia bianca, di là la notte che è pronta a vestire il mondo del suo abito scuro. Peccato solo non si veda il Monte Rosa!

Km 312. Dopo una bella ravanata sulle rocce aguzze, il sonno mi agguanta alla giugulare e non posso fare a meno di chiudere gli occhi. Continuo a camminare nel miraggio della frontale di Marco che mi precede, ma non ho più il controllo di quello che sto facendo. Piego a sinistra, inciampo fuori traccia. Marco sente dei rumori strani e si gira. Sono giù a metà scarpata ma non me ne rendo conto. Vedo il volto del mio compagno e punto in quella direzione.

"No!" fa lui. Perché non vuole che lo raggiunga?

"Arrivo" rantolo e mi butto dritta contro un muro di cespugli nodosi. E mi va anche bene perché sarei finita giù nel torrente se non ci fossero stati. Marco è tornato indietro e mi tende la mano. Mi tira su e solo allora mi rendo conto di dove stavo andando. Dritta di sotto. Al Rifugio Frachey è ora di un bel sonno.

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Km 322. Alle 5 del mattino, quando stiamo per scollinare a Cime Bianche, obbligo Marco a incidere un nuovo rap, mentre il vento strombazza che pare voglia partecipare all'orchestra. Sono le cinque del mattino a Radio Glaciers. Per voi, popolo della notte, che vi chiedete: "Saranno ancora vivi?!"

Km 333. All'Hotel Stambecco, ci ritroviamo in un bel gruppetto e facciamo due tavolate di zombie in giacche e pantavento, occhi e guance color peperone. Ci scofaniamo senza ritegno le lasagne accompagnate dai resti del buffet della colazione, yogurt, cereali, miele, marmellata. La marmellata, sì, con le lasagne. Marietto è come me: un professionista nell'eclettismo alimentare. Forse ha un serbatoio ancora più grande del mio, a dispetto della sua stazza.

Km 342. Il Cervino ha vigilato sul nostro passaggio per tutto l'anfiteatro sopra a Cervinia e ci saluta alle nostre spalle, mentre scendiamo dalla morena. Da qui sono chilometri di sentiero in costa. Il genere di sentiero su cui, chi fa 'sto sport correrebbe e via. Ma noi stiamo facendo il Glaciers, signori, i sogni da Forrest Gump sono tramontati da un pezzo. Se la pendenza non va in giù, non si accelera. Possiamo solo continuare a camminare. E zoppicare, nel mio caso.

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Km 352. Prima di uscire dal Rifugio Perruca, firmo il poster della gara. Sono la quinta donna a passare di qui.

Km 359. Lasciamo il Prarayer e siamo di nuovo fuori, al buio, al freddo. E io, che di solito non amo mica tanto andar di notte, ho una voglia pazzesca di rimettermi in cammino. A dispetto della stanchezza e degli acciacchi. Marco è sempre con me e lui è uno che dà sicurezza quando ti cammina a fianco.

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Km 376. Il Mont Gelè è uno dei passi più duri di tutto il percorso. È alto 3172 metri. È roccioso da matti in salita e una traccia cieca in discesa. Bisogna agganciare gli occhi al gps e cercare conferma negli ometti, perché il percorso pare senza logica. Trovo che il modo migliore di arrivare su sia registrare il nuovo rap che, tra un sonno e l'altro, ho composto anche stanotte. Radio Glaciers, solo musica d'alta quota, solo sound da ipossia. Marco perfeziona la base e io canto prima che sorga il sole. Solo al buio si può osare 'sta cosa. Con la luce, meglio non sentirci. Spegniamo le frontali. Il mondo si accede alle nostre spalle. L'alba oggi è di fuoco. Qualche nuvola leggera si tinge di rosa e sempre fluorescente. Il passo è lì.

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Km 397. Rifugio Champillon. Alle 12:39 Marco, Tiziano, Mario, Mattia, Dejan, Eric e io bippiamo con due ore e ventuno minuti di anticipo sul cancello. Marietto è come se fosse arrivato. Il rifugio è pieno di gente, perché ci sono anche Quelli del Tor. Dalla folla saltano fuori Alessandro e Pier. Sono qui per noi. Come sempre, mi sciolgo dall'emozione, ma non piango, perché sono una dura, ovvio. Banchettiamo tutti insieme. I rifugisti ci conoscono, qui hanno anche il mio libro sullo scaffale, e ci fanno festa. Ricordano che Marco aveva promesso di farsi un Gin Tonic se fosse arrivato fin qui e sono pronti a offrirglielo, ma alla fine Marco il Bullo deve ritrarre la parola, "vista l'ora, sapete com'è". Invece io, come annunciato, m'ingozzo di crema al mascarpone. Decido per mezz'ora di sonno. Non faccio in tempo a coricarmi, che un gatto mi salta sulla pancia. Con delicatezza ma senza chiedermi il permesso, si accoccola accanto a me. Gli poso una mano sulla testa e, un attimo dopo, siamo di sasso tutti e due.

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Km 405. Abbiamo seguito per un po' le bandierine gialle del Tor, ma ora svoltano secche a sinistra. Davanti a noi il sentiero è sbarrato dai nastri che vogliono dire Non passare di qui. Non per noi, chiaro. Noi siamo Quelli del Glaciers, quelli la cui traccia va dove non ti aspetti. Il sentiero svolta e all'improvviso ci si ritrova persi tra vette rugose e mastodontiche.

Guendalina Sibona: "Il viaggio non ha fine, felicità è continuare a camminare" - foto 21
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Km 412. Risaliamo la cresta del Colle Barasson. In cielo si addensano nuvoloni color cobalto, mentre il sole distende i raggi più struggenti. Scattiamo qualche foto, la luce è pazzesca, densa, cangiante, carica di energia. Un tramonto sorprendente. Un attimo dopo, si alza il vento, si abbassa la nebbia. Il cambio è repentino, inaspettato. Quasi insensato.

Km 413. Gusci e pantavento non bastano. Marco apre lo zaino per prendere le moffole e il piumino, ma quest'ultimo, appallottolato nello zaino dall'inizio dell'avventura, rotola fuori sbalzato da una raffica più forte. Lo guardiamo precipitare nel vuoto. Non ci viene nemmeno in mente di controllare se si possa recuperare. Qui la parete è un salto verticale, sarà meglio levarci di torno.

Km 414. Scolliniamo e non vediamo più dove siamo. La nebbia è massiccia e impenetrabile, spugnosa quasi. Gronda secchiate d'acqua.

Avanziamo in silenzio, è il temporale che alza la voce per tutti.

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Km 417. La facciata dell'Hotel Italia al Passo del Gran San Bernardo sembra uscita da un libro di Stephen King. Spettrale, tetra, da brividi direi. A mezzanotte siamo pronti a partire: indossiamo tutti i vestiti che abbiamo. Le dita dei piedi sono uva passa, ma gli alluci, col freddo, sembra mi facciano meno male. O così cerco di convincermi.

Km 418. La pioggia si è trasformata in neve. Fiocchi leggeri, soffici, vorticosi. Il vento fischia rincorrendosi dalla Svizzera all'Italia. Noi inseguiamo la traccia. Potrebbe essere un'ultima nottata più semplice, meno umida, meno incerta, ma io sono tranquilla. Se prima della partenza pensavo di dover trovare la giusta serenità per affrontare il viaggio, solo ora capisco che è il viaggio a restituirmi quella serenità che negli ultimi mesi non avevo più. Solo svuotandomi completamente e mettendo tutta me stessa in questa avventura, sono riuscita a riemergere dal buio. Avrò tempo per elaborare questa sensazione, ma ora intuisco che qualcosa di inaspettato si è compiuto anche questa volta.

Km 420. La neve vortica sempre più forte intorno a noi. La visibilità è minima.

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Km 427. Il Rifugio Frassati è pieno di gente, la maggior parte dorme. Con la testa abbandonata sul tavolo. Sdraiati per terra. Seduti contro il muro. Mi guardo intorno, mentre tento di riordinare le idee. Riconosciamo solo Raphael e Yannick, tutti gli altri sono Quelli del Tor. C'è la Bea e c'è anche Mauro. Sono tutti fermi. O meglio, sono stati fermati. Il Tor è stato sospeso per il ma tempo. Vorrei andare a dormire un'ora, ma fiutiamo la possibilità che, di qui a poco, decidano di fermare anche Quelli del Glaciers. E allora via! Là fuori c'è un'avventura da concludere. Fuori la neve vortica furiosa. Un brivido di adrenalina mi assicura che ne vale la pena.

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Km 430. Un passo ancora. O meglio, Il Passo, il Col Malatrà. L'ultimo. Il vento s'incanala e soffia cattivo proprio contro le nostre facce, è quasi impossibile tenere gli occhi aperti, la visibilità è quasi nulla. Ancora non so che nessuno di Quelli del Glaciers dietro di noi uscirà dall'Hotel Italia; ancora non so che anche la nostra gara verrà fermata; ancora non so che verranno dichiarati Finisher tutti quelli che sono arrivati fino al Passo del Gran San Bernardo, fra loro Marietto; ancora non so che Mattia e Tiziano, che sul Colle Barasson si sono spaventati davvero, decideranno di ritirarsi prima che sia annunciata questa decisione; ancora non so che un gruppetto in fondo al gruppo su quel colle passerà tutta la notte in attesa dei soccorsi, incapace di orientarsi e procedere; ancora non so che anche il Tor30 verrà annullato e nessuno dopo di noi scavalcherà il Malatrà oggi, ancora non so che siamo gli ultimi sul percorso. Quello che so è che dall'altra parte del colle imperversa la bufera.

Km 436. Ormai tutto intorno a noi è bianco. Affondiamo in dieci centimetri di neve e mi sa che su sono molti di più. Ho sei strati di vestiti addosso, tre dei quali impermeabili e ho freddo. I piedi ormai non li sento da un po'. Penso sia ora di chiamare il numero di emergenza per capire cosa fare. Probabilmente qui non c'è campo, ma non siamo comunque in condizioni di estrarre il telefono. Non in mezzo alla tormenta. In fondo, siamo Quelli del Glaciers e dall'inizio ci ripetiamo che siamo soli su queste Alte Vie. Sia quando va tutto bene, sia quando c'è qualche imprevisto. Ci siamo. Si tratta di prendere delle decisioni esattamente come faremmo se non fossimo in gara. Valutiamo che la cresta che ci aspetta fino al Mont de la Saxe sia impossibile in queste condizioni e scegliamo di andare fuori traccia. Abbiamo bisogno di scaldarci e capire come procedere.

Km 438. Al Bonatti ci guardano storto, sicuro non si aspettavano di vedere entrare due col pettorale oggi. Alessandra Nicoletti in persona ci autorizza a fare la balconata fino ad agganciare le bandierine del Tor. Intanto la tempesta si è quietata.

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Km 443. Il Monte Bianco si concede splendido come la bufera l'avesse rimesso a nuovo, sembra di camminare in una di quelle palle di Natale, che scuoti per far frullare i fiocchi e poi, lentamente, si posano sul piccolo mondo incantato. Per metà percorso non incontriamo nessuno e i nostri passi sono tonfi sordi, timorosi di turbare il risveglio del mondo dopo la prima neve della stagione. Gli alluci, dopo la congelata notturna, hanno ricominciato a bruciare di dolore. Le vesciche sono gonfie e infettate sotto i cerotti, i tendini vibrano come corde di chitarra. Ogni passo è uno sforzo mostruoso, ogni volta che appoggio il piede, urlerei. E allora, meglio cantare. Ultima puntata di Radio Glaciers, in orario anomalo, visto che ormai sono le 10:00 del mattino. Capirete che prima non avevamo la possibilità di esibirci, persi com'eravamo nella bufera, su cui, però, non canteremo nessun rap.

Km 446. Ultima discesa. Incrociamo tante persone che salgono e tutte, quando c'incrociano, si fermano e applaudono, ci fanno i complimenti. Io vado giù come una vecchietta di novantasette anni.

Km 448. Mi sento come il primo uomo sulla luna quando calpesto l'asfalto, assolutamente fuori luogo.

Km 449. Nel centro di Courmayeur, Marco e io ci scambiamo un'occhiata e poi iniziamo a correre.

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Km 450. La città è gremita di gente, decine di volti amici tra tanti sconosciuti. Scusate l'attesa, a sapere che eravate qui ad aspettarci, avremmo mangiato di meno e saremmo andati di più. Corriamo tra due ali di folla che mai nella vita mi è capitato così. Alla fine mi sa che gli ultimi si beccano una festa tanto quanto il primo. C'è pure la diretta dell'arrivo e così anche gli amici che sono a casa seguono in live questo momento. Alcuni si emozionano, mi diranno. Esagerati! Stare qui, sotto l'arco, al fianco di Marco, al collo la medaglia di Finisher che mi ha messo Ettore, con Silvano Gadin e Ivan Parasacco che ci fanno festa, portavoci di tutti i tifosi intorno, è roba folle, ma io, se devo dirla tutta, non sono emozionata come quando ero lì sul percorso e stavo per scollinare. Come tutte le volte che sono a un colle e guardo avanti. Perché dopo un colle, c'è un nuovo mondo, nessuna risposta ma un sacco di altre domande, perché il viaggio non ha mai fine e quello che conta e mi rende felice è continuare a camminare. (Guendalina Sibona)

"Per quanto sia doloroso, per quanto sia spaventoso o per quanto lontano si vada, non si abbandona mai la battaglia." ("Lone Survivor", 2013 - Regia di Peter Berg)

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