TRAILRUNNING

Luca Dalmasso: "Il Tor 2018 è stato la perfezione assoluta ma... l'appetito sta tornando!"

L'ultrarunner piemontese racconta la sfida (con se stesso) in uno degli endurance trails più famosi ed impegnativi del mondo.

di
  • A
  • A
  • A

La "febbre" da Tor des Geants sta entrando nel vivo: le due prove più impegnative - il Tor des Glaciers e la gara da 340 chilometri che dà il nome all'evento stesso - sono in pieno svolgimento. A chi non ha la fortuna di essere in azione sui sentieri ma sogna di farlo un giorno (anzi... quattro o cinque , se non di più!) , una scorciatoia... lecita ed appassionante può offrirla la lettura di "Tra i giganti del Tor des Geants", il libro che al mitico endurance trail valdostano ha dedicato Luca Dalmasso, finisher nel 2018. Lo abbiamo intervistato.

LD: Volevo fare il Tor, volevo finirlo, per me era la chiusura del cerchio della vita. Sicuramente il traguardo lo avevo sognato talmente tanto che poi è stato davvero emozionante ma molto diverso da come l’avevo sognato. Con il senno di poi sono stato contento che sia venuto così perché è stato veramente tutto mio, quell’arrivo notturno in una Courmayeur completamente deserta ed addormentata. Quando invece tagli il traguardo di giorno sei distratto da tutto ciò che sta intorno e che ti porta a sentirti un po’ un eroe, con il pubblico che ti applaude ed allora quasi quasi ti convinci di esserlo, un eroe. Così invece è stata una cosa tutta mia. Percorrere insomma in perfetta solitudine le stesse centinaia di metri che cinque giorni prima al via erano affollate di gente: che differenza! Esteriormente ma anche, appunto, interiormente.

È un doppio profilo - competitivo ed intimista - quello che ci è sembrato di cogliere nelle 184 pagine di "Tra i giganti del Tor des Geants" (Fusta Editore). Meglio ancora, e più precisamente: una doppia chiave di lettura. La prova sportiva e poi il viaggio. Qualcosa che accomuna il libro di Luca Dalmasso  a quello (ugualmente recensito da Sportmediaset) che Guendalina Sibona ha dedicato al trail sulle Alte Vie numero 1 e 2 della Valle d'Aosta. Così uguali e così diversi, separati... alla nascita. Concentrandoci ora su Luca, la lunga carriera sportiva e la passione per la montagna hanno creato prima le premesse e poi la base per un'avventura che profonde motivazioni esistenziali e di rinascita personale hanno poi incendiato, creando una fiamma altissima, un fuoco personale che ravviva ogni singola pagina, rischiara le ombre della notte, asciuga gli abiti inzuppati dal temporale, illumina il sentiero che si fa strada verso il traguardo. Già, il traguardo : un punto certo e sufficiente, finito e definito: la prova di esistere. Luca lo ha tagliato - oltretutto in 81esima posizione assoluta su di un totale di oltre ottocento concorrenti!- nell'edizione del 2018 affrontata tra l'altro con un finalità benefica (per Find The Cure Italia Onlus), in quella che resta la sua prima e (finora!) unica esperienza "competitiva" al Tor. Perché?

LD: Il motivo per cui i due anni successivi alla mia partecipazione - 2019 e 2020 - non ho più pensato di farlo ed anzi nemmeno tentato il sorteggio,  è legato al fatto che io ritengo tuttora quell’esperienza completa: la preparazione, l’avvicinamento, gli allenamenti, le uscite, le amicizie e le conoscenze, le emozioni della gara. Tutto quel capitolo lo ritengo la perfezione assoluta, è andato tutto in maniera così terribilmente perfetta che per un paio d’anni ho sempre avuto "paura" di intaccare quella perfezione. Mi dicevo: se la rifaccio, così non potrà mai più andare, per forza, perché è impossibile, di più non esiste. Poi magari mi verrebbe meglio come tempo, perché può anche darsi che se mi alleno bene ed ora che la conosco bene, posso anche ambire a fare un tempo migliore, ma non è detto che impiegando tre o quattro ore in meno la qualità dell’esperienza risulti migliore nel suo complesso. Perché magari la preparazione può essere condizionata da un infortunio, oppure può essere più difficile combinarla con gli impegni della famiglia. Esistono mille motivi per cui potenzialmente potrebbe essere più complicato.

Forse accade come per il "sequel" di un grande successo cinematografico: difficilmente sarà all’altezza dell’originale.

LD: Esatto, il paragone calza a pennello! È un po' quello che ho pensato per due anni. Poi però, se devo dirti la verità, neanche tanto quando è uscito il mio libro - con tutto quello che ne è seguito e che mi ha un po’ travolto - quanto piuttosto quando ho letto quello (come abbiamo già detto per così dire “gemello”, ndr) di Guendalina Sibona, ha iniziato a tornarmi un certo… appetito per il Tor. Non so ancora come e tantomeno quando ma prima o poi mi piacerebbe ripetere l’esperienza. In questi giorni poi c’è “tanto” Tor, la presentazione… itinerante del libro sul percorso, gli amici in gara da seguire. Sto rivivendo questa cosa dall’interno e quindi la voglia cresce ma non sto programmando nulla. Senza contare poi che il Tor l’ho vissuto sul posto anche nel 2019 al seguito del mio amico Danilo Lantermino che è arrivato terzo assoluto. Ecco, il Tor dei top runners, dei primi sette-otto della classifica è tutta un’altra cosa: seguirlo da vicino richiede un approccio diverso e te ne offre un prospettiva completamente differente.

Luca, il Tor des Geants offre a chi vi prende parte un caleidoscopio di sensazioni e di emozioni talmente "tante", complesse ed magari a volte indecifrabili che scaturiscono sia dalla natura del percorso, sia dal poterlo (e doverlo) condividere con centinaia di altre persone che - potenzialmente - vivono le tue stesse priorità. Qual è dunque la "cifra" del Tor, anzi del tuo Tor, perché questo conta alla fine, al... traguardo.

LD: Del Tor ricordo molto di più gli incontri e le esperienze personali che non i panorami oppure l’itinerario. Per quanto mi riguarda, i luoghi attraversati non sono mai stati e non sono neppure adesso la cosa che mi è rimasta più impressa. Anche perché sono nato e cresciuto in montagna, la frequento tutto l’anno, ho fatto centinaia di gite, ho girato le Alpi ed ho visto le montagne del Nepal. Per me contano di più le persone, le esperienze, trovarmi in quel posto in quel momento, quello che vivo e che sento indipendentemente dal posto in cui mi trovo. Quando vado in montagna, vado in quel determinato posto non perché punto ad un bel laghetto ma perché mi sento emotivamente connesso con quell’itinerario. Poi le mie uscite in montagna sono spesso solitarie e faccio pochissimi incontri. Al Tor invece gli incontri sono tanti ed ho cercato di raccontarli, così come le esperienze. I personaggi che racconto nel libro mi tornano spesso alla mente, molto più che un tramonto oppure una salita. Mi sono rimaste le persone, il sonno che avevo, la fatica lungo una salita oppure le soste a riposare seduto su un masso, cose così.

Ecco, il sonno. Diciamo che è un coprotagonista del tuo libro ritorna spesso nella narrazione, come un bisogno regolare che però al Tor resta largamente insoddisfatto. È proprio "lui" il primo nemico di voi "giganti"?

LD: Sì, confermo: il sonno è il primo “nemico” al Tor, anche se penso di essere riuscito a gestirlo molto bene. Mi ha dato un po’ di problemi la prima notte di gara, è vero, ma appunto piuttosto gestibili e poi le notti seguenti non sono mai andato in crisi profonda a causa del sonno. Quella l’ho avuta solo nel finale. Per la stanchezza ma più ancora per un calo di concentrazione, aver pensato che fosse ormai fatta ed invece no. Ho capito che non è mai fatta, nemmeno quando inizi l’ultima discesa: il Tor è talmente “tanto” che gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo e la mia crisi nel finale ne è stata l’ennesima dimostrazione. Ero veramente alla fine, mancavano tre o quattro ore, eppure sono state le più difficili in assoluto.

Recentemente, i trail sulla lunga e lunghissima distanza hanno "fatto notizia" per alcuni episodi purtroppo luttuosi che - se non hanno aperto un dibattito - forse richiedono qualche riflessioni. Ti chiediamo un punto di vista dall'interno, partendo appunto dall tua esperienza: personale, diretta e quindi qualificata.

LD: La maggior parte degli endurance trails richiedono una certa esperienza ma poi l’incidente può lo stesso capitare, come è successo quest’anno all’UTMB. Io penso che il Tor, indipendentemente dal fatto che non richieda un’esperienza specifica ed in teoria chiunque si possa iscrivere, sia una gara in cui l’organizzazione ha sempre tutto abbastanza sotto controllo. Almeno questa è personalmente l’impressione che ho sempre avuto: ristori ogni cinque chilometri, percorso tutto segnato e “bindellato”, tutte cose che lo rendono abbastanza sicuro. Poi, se uno batte la testa su una pietra, siamo nel campo dell’imponderabile. Diverso il discorso per il Tor des Glaciers che infatti richiede qualche requisito in più. Poi, io corro da un vita ma - ed è una mia opinione personale - non amo i tratti troppo tecnici in un gara. Nel senso che - nel momento in cui metto un pettorale - un tratto di ferrata o catene e scalette metalliche, i ramponi sul ghiacciaio, i crepacci oppure una certa esposizione sono cose che stridono con il concetto di gara. Alla Capanna Margherita sul Monte Rosa (il rifugio più alto d’Europa a 44554 metri sul livello del mare, ndr) sono andato da escursionista. Dovessi tornarci,ci tornerò da escursionista! Mettere i ramponi, legarmi ad un corda, attraversare un crepaccio e - dall’altra parte -mettere il pettorale, per me sono cose che non vanno d’accordo. Se metto un pettorale, sto facendo una gara e su questo mi concentro. Se sto facendo la cresta del Castore… sto facendo la cresta del Castore: sono due cose diverse! Tendenzialmente non sono per le gare troppo tecniche: lì le difficoltà sono troppo grandi e un distrazione può diventare fatale. Al Tor invece la distrazione è gestibile, difficilmente diventa fatale e se lo diventa… significa che se andato molto oltre il tuo limite. Poi può capitare. Nel punto dell’incidente mortale di un concorrente cinese ne 2013 sono anche passato: un sentiero senza particolare rischi, pericoli ed esposizione. Al Tor è tutto sotto controllo ma è chiaro che in una gara di trecentoquaranta chilometri non ci può essere un soccorritore ogni trenta metri, ci mancherebbe. I punti di controllo però sono frequenti ed il percorso tutto segnato. Sbagliare strada è difficile, io non mi sono mai perso. Ti perdi giusto se... le mucche (ed a quanto sappiamo succede spesso…, ndr) si mangiano le bandierine! Anche in questo caso però gli organizzatori reagiscono rapidamente, inviando del personale a ripristinare il tratto ‘incriminato’. Nella seconda parte dell’itinerario poi tra il passaggio del primo concorrente e del cinquantesimo passa un giorno e mezzo, gli ultimi transitano dopo tre giorni. In questo arco di tempo le condizioni possono variare moltissimo, sotto molti aspetti. sono anch’io organizzatore e direttore di una gara di un trail (il VVT, Valle Varaita Trail, ndr), so cosa vuol dire.

Ecco, appunto. Il riferimento alla "tua" gara è un ulteriore spunto per tracciare ancora meglio l'identikit di chi corre il Tor e di chi punta ad essere "finisher" sotto l'arco dell'arrivo di Courmayeur. 

LD: Il Valle Varaita Trail era originariamente in calendario nel mese di aprile, poi ci siamo spostati a maggio e poi ancora a giugno. Il problema è sempre lo stesso, comune a tante gare primaverili: riuscire a correre sul tracciato originale. Una volta la neve, una volta il maltempo… La nostra gara si svolge intorno ai millesettecento metri di quota e ad aprile la neve è ancora tanta. Non so ancora se la metteremo in piedi l’anno prossimo. Siamo un gruppo piuttosto piccolo, per noi le restrizioni legate all’emergenza sanitaria sono piuttosto pesanti. Nel nostro stesso territorio poi quest’anno è nata un’altra gara - la 100 Miglia del Monviso - che ha progetti molto ambiziosi e risorse… adeguate ed alla quale oltretutto siamo legati da una partnership. Dobbiamo valutare il da farsi: restare indipendenti ma cambiare data (perché due gare nello stesso periodo sullo stesso territorio non hanno senso) oppure investire nella partnership con la 100 Miglia.

Per finire in bellezza (e speriamo "ad uso e consumo" di chi punta a seguire le tue tracce sul sentiero del Tor e non solo), ci racconti quali sono state le tappe sportive e quelle esistenziali che ti hanno portato ad affrontare nel 2016 il K4 Alpine Endurance Trail (che ricalca il percorso del Tor ma in senso orario) e poi, anche per lenire la delusione del ritiro in quella gara, prima sulla linea di partenza di Courmayeur e poi al traguardo del Tor des Geants 2018?

LD: Ho iniziato a correre a tredici anni e mezzo, facendo gare su strada, pista, campestri soprattutto e poi corsa in montagna, facendo la trafila classici delle gare giovanili. Arrivato intorno ai vent’anni ho affrontato un periodo critico, un po’ per tutti: le gare si allungano, invece di correre solo con i coetanei devi farlo con avversari anche quindici anni più grandi e sei in un’età nella quale non è proprio... facile alzarsi la domenica mattina alle cinque per andare a correre una campestre. Non ho mai mollato del tutto la corsa, ho continuato ad allenarmi in settimana ma le gare si sono diradate moltissimo. A quel punto però è esplosa la passione per la montagna, un po’ per gradi: escursionismo, vie ferrate, alpinimo, scialpinismo, arrampicata: di queste due ultime discipline sono anche diventato istruttore sezionale del CAI. Sei-sette anni molto intensi che mi hanno fatto acquisire un certa consapevolezza nel muovermi in ambito di montagna. Verso i trent’anni (oggi Luca ne ha quaranta, ndr) alcuni cambiamenti lavorativi ed esistenziali mi hanno portato a mollare un po’. Praticavo tutti gli sport possibili ed immaginabili, con il rischio però di fare tutto e male e di fare solo fatica. Quindi ho abbandonato scialpinismo ed arrampicata e mi sono concentrato su corsa e camminate. In quegli anni c’è stato il boom del trail sulle lunghe distanze e, prendendo parte alle gare, ho scoperto che si trattava del connubio per me perfetto, esattamente a metà strada tra corsa ed escursionismo. Più le gare sono lunghe, più la corsa assomiglia ad un grande viaggio escursionistico, pur mantenendo certe sue caratteristiche, come la corsa in discesa. Ho trovato la mia dimensione, che mi ha portato al Tor e poi ad altre prove non altrettanto lunghe ma comunque nelle mie corde come la LUT (Lavaredo Ultra Trail, ndr) oppure le gare dell’UTMB (Ultra Trail du Mont-Blanc). Il 2020 poi, l’anno senza gare, è stato il mio migliore in assoluto, quello nel quale ho corso di più e meglio e nel quale ho raggiunto il massimo della mia forma. E questo mi ha fatto riflettere, nel senso che ho capito che non sono le gare a farti correre meglio e più velocemente ma la voglia, la progettualità personale: ho fatto anche un paio di ultratrail… indipendenti ed in solitaria, che sono andati tra l’altro molto bene. Ed è stato molto bello anche così.

Perché poi - ed è questo il vero traguardo - ciò che conta ma più ancora anima e salva è “sfidare se stessi”, come recita il sottotitolo del libro di Luca. Farlo poi "nell'Endurance Trail più famoso al mondo" può essere un modo di affrontare la missione, consapevoli che una prova per molti versi estrema sulle Alte Vie valdostane magari non basta ma aiuta: movimento più o meno perpetuo allo scopo di raggiungere un punto fermo, un traguardo appunto. E molto altro ancora, ma ciascuno a modo suo. Ci è piaciuto indagare un po' su quello di Luca. Resta solo suo, s'intende: ma  le sue pagine ora sono anche emozionalmente nostre e lo ringraziamo per questo.

 

Commenta Disclaimer

I vostri messaggi 0 comments