Il 25 novembre del 2020 se ne andava Maradona lasciando un vuoto incolmabile nel calcio mondiale
di Andrea Cocchi© Getty Images
Cinque anni possono passare in un attimo. Diego Armando Maradona ci lasciava il 25 novembre del 2020, mentre tutto il mondo era di nuovo costretto a chiudersi in casa per quel virus maledetto. Da allora il pallone non ha smesso di piangere. Non nel senso metaforico del mondo del calcio, che dimentica in fretta mentre conta i soldi guadagnati con le mille partite inventate per il profitto di pochi, ma proprio quell'oggetto sferico che ti viene voglia di calciare appena ti reggi in piedi. Diego lo ha sempre trattato con amore e non solo perché ogni centimetro del suo corpo sapeva accarezzarlo con una grazia che aveva poco di umano. Sembrava la rappresentazione reale di un gesto metafisico, la prova di cosa voglia dire amare a prescindere, senza secondi fini, solo perché lo senti dentro di te e non puoi farci niente. Diego e la palla come quelle coppie che sanno andare oltre lo schema "sesso, paura della solitudine, narcisismo, bisogno di tenerezza". Amore solamente amore solo solo quello, alla Jovanotti.
Certo, si sono dati tanto reciprocamente. Grazie al suo attrezzo da lavoro è uscito dal ghetto di Villa Fiorita, ha regalato un'esistenza inimmaginabile a sé stesso e alla sua amata famiglia, ha guadagnato cifre immense, è stato adorato come un dio pagano, poteva scegliersi le donne che voleva, comprese quelle che riempivano le pagine dei giornali e che gli altri uomini al massimo riuscivano a possedere con la fantasia. Però, pensando al suo rapporto con il pallone, vengono in mente due flash legati alla letteratura e al cinema. Eduardo Galeano, lo scrittore uruguaiano, ha scritto che se in una festa di gala, vestito di tutto punto, Maradona avesse visto cadere dal cielo un pallone pieno di fango, lo avrebbe stoppato di petto fregandosene altamente di sporcare il frac. Mentre il premio Oscar Paolo Sorrentino, che lo ha ringraziato in mondovisione con la statuetta in mano e lo ha reso un personaggio che aleggia in quasi tutti i suoi film, in "Youth" lo rappresenta come uno degli ospiti di un super resort di lusso che, di notte in un campo da tennis, alla faccia di una pinguedine accentuata, continua a palleggiare con una pallina lanciandola più in alto possibile, con un sinistro fatato, senza mai farla cadere.
Il rapporto con l'oggetto che lo ha riscattato, come quello viscerale con Napoli e la sua Argentina, non sono bastati a cancellare quei fantasmi che lo hanno inseguito per tutta la vita. Un affetto infinito, che gli impediva di poter mettere piede fuori di casa, l'amore della famiglia e di buona parte del mondo del calcio non sono riusciti a placare i demoni che facevano parte di lui. Che erano lui. Sfruttato fino all'osso per poi essere gettato via, vedi il Mondiale di Usa '94 o il modo in cui ha dovuto lasciare Napoli, Diego ha pagato i suoi errori con gli interessi, fino a quella morte assurda a soli 60 anni.
Da allora gli hanno intitolato lo stadio di Napoli, lo hanno ricordato durante le celebrazioni di due scudetti, è tornato sulle prime pagine per i processi che devono stabilire le responsabilità della sua morte, hanno continuato a celebrarlo con docufilm o serie televisive, vive nei murales, nei cuori e nei cori di chi non dimentica. E finché qualcuno continuerà a digitare in qualche motore di ricerca video "le più belle giocate di Maradona", anche tra secoli, Diego sarà sempre lì a farci domandare se quello che stiamo vedendo sia davvero reale e se un uomo possa fare delle cose del genere. E se ci spunterà qualche lacrimuccia daremo la colpa alla vecchiaia che ci rende più sensibili. Anche se la verità è che, al netto della nostalgia di anni che non torneranno più, il dolore è costretto a sciogliersi nell'orgoglio di poter dire "ho visto Maradona". Possono toglierci tutto ma quello non ce lo toglierà mai nessuno. Tenetevi pure la musica trap e l'intelligenza artificiale, noi ci teniamo Diego.