Partenza e traguardo, nelle terre di nessuno 

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Il Coniglio Bianco si mise gli occhiali e domandò: — Maestà, di grazia, di dove debbo incominciare ? — Comincia dal principio, — disse il Re solennemente... — e continua fino alla fine, poi fermati. Alice nel Paese delle Meraviglie. Ma non solo lei. Molti di loro, di noi. Comincia, continua, fermati.

Il principio e la fine: anzi, la partenza ed il traguardo. Perché è di questo che stiamo scrivendo. E, per una volta, non di tutto quello che sta in mezzo.

La citazione è doppia. Lewis Carroll, naturalmente. E poi, per quanto mi riguarda, Simone Sarasso ed il suo “Trail Rock Girls”, di prossima recensione … da queste parti.

L’idea è nata così, leggendo.

Si scrive o semplicemente si conversa di sky e trailrunning, soprattutto di ultra. Si parla di dosi esagerate di chilometri, di fatica, di sudore, di passione. Ma niente di tutto questo esiste senza uno scatto da fermo, senza una scintilla iniziale. E niente di tutto questo ha senso se tutto questo, prima o poi (più poi che prima) non ha una sua conclusione. Inventata, eppure non artificiale.

Già, il traguardo: pura invenzione.

E prima ancora la partenza: la conditio sine qua non.

La gara inizia lì, sotto l’immancabile arco gonfiabile. Che spesso si sgonfia sul più bello. Floscio come le gambe di almeno metà di noi lì sotto. Anche se non lo ammettiamo. Ma su questo torniamo più avanti.

La partenza è l’origine di tutto. Ma poi anche il giorno prima mica scherza. Il viaggio, l’hotel, la seconda casa dell’amico in prestito, o anche solo il materassino steso in una palestra. Tutte le pratiche pre-gara: il pettorale, il certificato, il pacco gara, l’attesissimo briefing tecnico. La cena: un piattone così di pasta. Dispongo tutto ma-ni-a-cal-men-te sul ripiano. Da sinistra a destra: la divisa da indossare subito domani (con appoggiato sopra il pettorale e le spillette), poi indumenti di ricambio (per quando il sole inizierà a scaldare, oppure per quando arriverà … la pioggia) ed ancora gli accessori: lampada frontale, coperta termica, occhiali, ramponcini. Per finire lo zainetto. Le scarpe, allineate, a sfiorarsi. Le stringhe lunghe uguali. “Grazie” all’immancabile smartphone metto la spunta ad ogni singola voce del materiale obbligatorio. I bastoncini? Giù nel baule della Subaru. Magari li lascerò lì anche domani.

Qualche ora di sonno, poi si va.

La partenza è un rito e - come si è già accennato - la condizione essenziale. L’oretta che la precede, anche di più. Arrivo sul posto dopo una colazione che voglio sempre e invariabilmente ricca. Che mi dia la sicurezza di essere a posto con me stesso. Ciò che sta davanti (sopra) non è uno scherzo. Quasi non faccio riscaldamento. Scaldo il cuore invece, aggirandomi tra i colleghi. Se conosco qualcuno, ecco, proprio due chiacchiere. Altrimenti, semplicemente, mi aggiro tranquillo. Raccolgo le idee, allineo i pensieri: cerco di spargerne un po’ – da qui - su per le montagne, già adesso. Chissà, mi potranno tornare utili quando li raggiungerò: tra qualche ora. Li raccatterò per farne uso da lì in avanti. Servirà anche quello. Una puntata nel tepore di un bar, soprattutto se la primavera è ancora acerba o l'autunno già pronto a passare il testimone all'inverno. L'ultimo caffè prima di tanto tè buttato giù tutto d'un fiato ai ristori.

A volte ci siamo solo noi, gli organizzatori, i volontari ed i cronometristi. La Polizia Locale e la Croce Rossa. A volte anche un po’ di pubblico più o meno casuale (parenti a parte). Anche solo una manciata di curiosi. E la gente del posto con il sacchetto del pane o il giornale tra le mani. Capita che ti chiedano quanti chilometri devi fare, quante ore starai in giro, bravo, complimenti. Chi te lo fa fare? Certo, che ti chiedono chi te lo fa fare. Semplicemente ti battono sul tempo (e non è bello), perché quella domanda lì tu te la farai tra qualche manciata di minuti, sotto l’arco colorato. Verso il quale adesso qualcosa ci attira. A ranghi completi, siamo così addossati l’uno l’altro che, se ti devi chinare a stringere un laccio (è troppo stretto, è troppo largo, non va mai bene, ma è solo nervosismo), ne fai spostare una decina ed a volte ... l’onda si propaga fino ai toprunners, là davanti. Io cerco sempre di posizionarmi più o meno a metà della mischia, magari appena più avanti. Mi confondo nella pancia del gruppo. Un po’ per carattere, un po’ per non intralciare chi partirà a razzo. Ma nemmeno troppo indietro, appunto. Perché poi se rimani intruppato e la strada si trasforma presto in semplice traccia, becchi subito minuti a palate (che poi sono difficili da riprendere) e proprio da quei pochi con i quali magari te la puoi giocare.

Poi lo speaker inizia a scandire il conto alla rovescia ed è lì (mica solo dieci, nove, otto … ma già dai meno tre minuti) che le gambe diventano molli. Ma molli molli come la gelatina ed hai l’impressione che le ginocchia tendano a piegarsi sotto il “peso” della parte superiore del corpo. Il fiato si fa un po’ corto: ansia, tensione. Ma non mi sentivo un leone poco fa? Siamo al punto di rottura.

“Don’t Crack Under Pressure”, era il claim di una nota marca di cronografi parecchi anni fa. Protagonista di quella campagna era Ayrton Senna.

Don’t Crack???

Crack, crack! Eccome se crack!

Il segnale dello start è una liberazione. Si parte sempre troppo forte ma poi tanto ci pensa la strada (che sale subito, invariabilmente) a “rimetterci” al nostro posto.

Poi "arrivano" i boschi, i sentieri, la foresta, la montagna. Ci vengono come incontro. E noi dentro, attraverso, sopra. Nevai, roccette e crestine che chiamiamo così (“ette”, “ine”) perché abbiamo l’impressione che così siano più abbordabili. Ma non è vero e comunque di tutto questo, si diceva sopra, oggi non si parla. Quindi mandiamo avanti a tutta velocità la sottile linea rossa della traccia che - alla voce "percorso in 3d", nei siti web di tante gare - serpeggia in scioltezza su e giù per la montagna e ci ha ingannevolmente convinto che si, si poteva fare, si poteva procedere con l'iscrizione. La "sottile" ci porta ora dritti dritti all’ultimo chilometro. Il traguardo, eccolo là: un’invenzione.

E un luogo sospeso, una terra di nessuno. Qualcosa che in fondo non esiste: una specie di convenzione e forse proprio "l'isola che non c'è". A volte lo vedi arrivare. Lo scorgi dall'alto ma devi mangiare ancora chilometri di terra e polvere, frustate di rami sulle braccia e magari sbucciature prima di inquadrarlo nel mirino. A volte lo senti arrivare. La musica a tutto volume, la voce dello speaker. Il traguardo è la nostalgia che ti afferra alla gola e anche più giù quando - all'ultimo chilometro - realizzi che "anche questa è fatta" ma qualcosa non torna e forse è proprio quella vecchia storia del segreto del viaggio che è il viaggio stesso e non la destinazione. Insomma, non torneresti indietro (non subito) ma forse, chissà ... Poi lo raggiungi, salti con l'ultimo passo al di là della linea e sei … in gabbia. Quello che hai fatto per le sei, sette, dieci ore precedenti non esiste più, se non nella tua testa. E, davanti, solo qualche minuto per riprenderti, chiedere casomai ai cronometristi il tuo tempo e la posizione, una bottiglietta d'acqua e un gadget da "finisher". Oltre la transenna alla quale appoggi la schiena c'è  il resto del mondo, anche della tua minuscola parte di mondo. Ma per ora gli volti le spalle. Questa cosa qui me lo sono sudata, lasciatemela godere per qualche istante. L'amico che ti ha preceduto per pochi secondi dorme sfinito lì per terra, raggomitolato. Poi si rialza e - come in trance - si avvia all'uscita. Tu lo guardi da sotto in su. Hai le braccia cinte intorno alle gambe. Metti la testa tra le ginocchia e ti sfoghi come non ti capitava da quella volta che. Ma era tanto tempo fa.

L'indomani ti alzi per niente indolenzito (sei allenatissimo, corri nella pancia del gruppo e e stappi lo champagne se rimani aggrappato al centro classifica, ma sei allenatissimo, non puoi essere indolenzito). Poi apri Google Maps e "ritorni" con il cursore sul traguardo che hai abbandonato in fondo solo poche ore fa. Street View. Niente, non c'è più niente (e forse non c’è mai stato). Arco gonfiabile, transenne, atleti sfiniti che dormono, postazione dei cronometristi. Tutto sparito. Non riconosci nemmeno un cubetto di porfido di quel lungolago, una fioriera di quella passeggiata, l'insegna di quel bar all’angolo. Il monumento ai caduti in mezzo a quella piazza. Scomparsa ogni traccia del traguardo che hai attraversato solo ieri. Le voci ed i suoni. Le luci ed i colori. Ma si, devo essermi sognato tutto. Il traguardo, che invenzione! Tocca immaginarne un altro e, per poterlo raggiungere, necessariamente una nuova partenza: la conditio sine qua non. In mezzo, chilometri (a decine) di corsa e fatica, sudore e fiatone. La fame e l’arsura. Il caldo soffocante e qualche volta la grandine.

Comincia dal principio. Continua fino alla fine. E poi fermati. Disse il Re al Bianconiglio. 

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