ULTRARUNNING

Marco Gubert e la solitudine dei numeri primi: "Vincitore al traguardo, solo la mia ragazza ad attendermi: non lo dimenticherò mai!"

L'ultrarunner trentino punta ad un doppio exploit di fine estate all'Ultra Trail du Mont-Blanc di Chamonix ed al Tor des Géants valdostano.

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© Archivio Marco Gubert

Dalle quattro stagioni in un giorno delle Canarie al gelo cosmico delle notti scandinave: è una dimensione planetaria la cifra dell’impegno sportivo di Marco Gubert, l’atleta trentino delle lunghe lunghissime distanze che abbiamo incontrato al DF Sport Specialist store di Bevera di Sirtori (Lecco), a margine della running experience che Marco ha recentemente condiviso con un buon numero di amatori nel corso di un test run della tecnologia Vectiv di The North Face. Un’occasione imperdibile per approfondire la conoscenza con Gubert e con la filosofia stessa del mondo ultra.

A colpirci subito, di Marco, è stata la sua semplicità, sono state le sue prime parole. "Arrivando qui a Bevera mi sono imbattuto in un grande cartellone pubblicitario lungo la strada, che pubblicizzava questo evento, con il mio nome a grandi caratteri. Ma tutto questo per me...? Non me lo aspettavo...!"

Ecco, appunto: se avessimo iniziato la nostra conversazione con Marco chiedendogli “classicamente” come fa una persona all’apparenza normale a compiere imprese fuori dal comune, lui ci avrebbe probabilmente risposto “come tutti gli altri” o giù di lì. A conferma di un carattere modesto e di un’umiltà di fondo che gli fa onore e che si sposa ad una consapevolezza delle proprie capacità altrettanto essenziale (dal nostro punto di vista) per provare a restituirne - nell’intervista che segue - un’immagine il più possibile fedele. Iniziamo intanto dai primi di un serie innumerevole di passi sul sentiero.

MG: La voglia di correre su lunghe distanze è arrivata un po’ alla volta. Non sono un professionista, ho avuto qualche buon risultato ma il resto è tutta esperienza. Da questo punto di vista sono uno come tanti, magari di livello medio-alto. Ho iniziato con gare di un paio d’ore, con le skyraces. Poi mi sono accorto che il mio ritmo preferito era sulla lunga distanza. Quindi sono passato a prove da cinquanta-sessanta chilometri, quindi mi sono messo a sognare le ultra da cento-duecento chilometri e… avanti così. Ultimamente mi sono appassionato alla navigazione ed all’autogestione, a fare uscite in autonomia: questa è secondo me la vera incarnazione del trail. Poi, la gara in sé te la vivi. Può andare bene oppure male. Tutto il resto invece - se ti piace - è semplicemente bellissimo: è passione vera.

© Archivio Marco Gubert

Vincitore nel 2019 del Trail degli Eroi sul Monte Grappa (la sua prima affermazione di grande rilievo), della durissima Tjornarparen 2020 in Svezia e della Corsa della Bora sul Carso triestino nel 2021, sempre l'anno scorso Marco è stato protagonista di un doppio exploit “all inclusive” alle Isole Canarie che - “complice” l’emergenza sanitaria - ha largamente definito la sua attuale dimensione di ultrarunner. Lasciamo però che sia lui a parlarcene.

MG: Fino a poco tempo fa di mestiere facevo lo chef. Quando è esplosa la pandemia e tutto si è fermato, paradossalmente io sono riuscito ad allenarmi molto bene, ad avere dei ritmi di riposo perfetti, ad alimentarmi in maniera corretta. Sono arrivato alle Canarie... carichissimo, perché era tanto che non facevo una gara. Era oltretutto la mia prima a navigazione e su una distanza molto lunga. Sono riuscito a sfruttare l’occasione ed a vincere. Era febbraio 2021. Poi, sempre a causa dell’emergenza sanitaria, l’edizione 2022 della Transrancanaria 360° Challenge è stata anticipata a novembre dello scorso anno: sono tornato ed ho vinto un’altra volta. Due successi nel giro di nove mesi e nello stesso anno solare, senza dimenticare che in realtà non si trattava della stessa gara: due isole diverse, due itinerari completamente differenti.

© Archivio Marco Gubert

Occorre spiegare che la prova di fine inverno si chiama Transgrancanaria 360° Challenge e si svolge sull’isola di Gran Canaria (come tutte le altre gare “minori” dell’evento TGC) su una distanza di 243 chilometri. Quella anticipata al successivo autunno è stata invece ribattezzata Transgrancanaria 360° La Gomera (sviluppo lineare: 212 chilometri) ed è andata in scena su quest’ultima isola, conosciuta anche come Isla Colombina, in quanto si ritiene sia stata l’ultima terra toccata da Cristoforo Colombo prima del “balzo” verso le Americhe.

MG: Sicuramente la mia… preferita è la prima delle due Transgrancanaria 360° che ho vinto, quella di febbraio 2021. Per dirla tutta, ho corso ben tre edizioni della TGC ma la prima in assoluto - nonché la mia prima ultra - è stata quella da 128 chilometri (la attuale Classic da 126K, ndr). Quella era già stata una buona prova. La prima delle due vittorie poi è stata un trionfo. Gara dominata, tanto che - al mio arrivo al traguardo - non c’era nessuno! Una sensazione stranissima: mi ricordavo i video delle edizioni precedenti nei quali (come d’altra parte quest’anno) l’area d’arrivo era affollatissima. Nel mio caso invece, in mezzo al deserto c’era solo lei (Marco indica con lo sguardo la fidanzata Alice che lo ha accompagnato all’evento, che assiste alla nostra intervista e che soprattutto gli fa assistenza in gara, ndr). Tu arrivi, hai vinto una gara internazionale… e non trovi nessuno o quasi ad accoglierti! Fa strano ma… è anche un’emozione particolare, che porterò con me per sempre!

© Archivio Marco Gubert

La solitudine dei... numeri primi, insomma! Marco, sappiamo ormai dove sei… arrivato (e di corsa!) ma siamo anche curiosi di sapere da dove viene. Meglio ancora: qual è stato il tuo punto di partenza, dove hai fatto partire il cronometro?

MG: Sono originario della valle del Primiero, quindi… montagna! Gli sport invernali l’hanno sempre fatta da padrone. Mio fratello è maestro di sci. Io ho praticato lo sci nordico, ho giocato a hockey, ho fatto anche un po’ di arrampicata e poi - in modo competitivo - per qualche stagione anche lo slittino. Quando ho iniziato la scuola alberghiera però mi sono concentrato sulla carriera professionale e lo sport è diventato una sorta di “stacco”. Alla corsa ho iniziato a dedicarmi quando sono andato a lavorare come chef a Limone sul Garda, dove per diversi anni la Limonextreme è stata tappa finale delle Skyrunner World Series. All’inizio l’ho vissuta da spettatore, poi ho iniziato a provarne il percorso. Poi ti passa davanti… Kilian e allora dici: noooo, devo andare anch’io a fare quella roba lì! Torno a Limone ancora oggi che abito una decina di chilometri più a nord, a Riva del Garda, dove mi sono trasferito sei anni fa. Ora mi sono messo in proprio. Sono un piccolo imprenditore, faccio l’artigiano edile. Ho un’azienda a gestione unica: lavori di ristrutturazione, costruisco un po’ di tutto. Sono molto più libero nei fine settimana e posso organizzare al meglio i ritmi di lavoro, gli allenamenti e le gare. Alla fine di una giornata di lavoro mi cambio sul furgone e vado a correre.

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D’accordo le radici, il tuo quotidiano, i tuoi luoghi… dell’anima. Ma quali sono i tuoi progetti sportivi più immediati, quelli che hanno attualmente carattere di priorità?

MG: L’Ultra Trail du Mont-Blanc, che è un punto d’arrivo per chi corre questo genere di gare: è un’esperienza fantastica, ad iniziare… dalla partenza. Io l’ho affrontato in un periodo della mia vita piuttosto movimentato: stavano cambiando molte cose. La più importante delle quali proprio il lavoro. Dal punto di vista pratico, almeno. Poi, nella vita ci sono cose ancora più importanti. Ho dovuto fare due lavori per tutta l’estate - quello vecchio e quello nuovo - e contemporaneamente preparare l’UTMB. Per cui sono arrivato a Chamonix stanchissimo. Sono partito motivato perché comunque ero pronto, però strada facendo mi sono accorto che non avevo le energie sufficienti ed allora mi sono detto: ok, ormai sei qui, vai avanti e cerca di fare il meglio che puoi.

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Devo dire che è andata bene (Marco ha tagliato il traguardo in 6esima posizione, ndr). Ho chiuso in ventotto ore. Certo, il mio obiettivo era ben altro - sulle ventiquattro - ma tutti mi hanno detto che ho fatto un ‘garone’ ed ho finito per crederci! Quest’anno ci torno ma non farò la gara da 170 chilometri, perché sto preparando il Tor des Géants che inizierà qualche settimana più tardi. Quindi farò la TDS (Sur ls Traces des Ducs de Savoie, 145 chilometri e 9100 metri D+, una delle prove del sistema-UTMB, ndr), che ha la distanza giusta in vista del Tor stesso. Cerco però di non mettere in calendario più di sei gare lunghe in un anno. Ne farò una in aprile, poi il “Passatore”. A giugno ho in programma due impegni: la Ultralifoj in Basilicata ed un tentativo di FKT (Fastest Known Time, ndr) su un’isola della Crozia, alla quale sono stato invitato da un ufficio eventi di quel Paese. Tra una e l’altra di queste gare poi, magari anche… qualcos’altro! A quel punto arriviamo alla TDS dell’UTMB e - forse - al Tor des Géants. Lo attendo da due o tre anni, spero che tutto vada per il verso giusto! 

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Nelle immagini che ti ritraggono in azione, spesso sul tuo pettorale personalizzato si legge “Gipeto” al posto del tuo nome. Come mai?

MG: “Gipeto” è il soprannome chi mi hanno dato i miei amici. È l’avvoltoio barbuto che vive anche sulle nostre Alpi. Ho un aneddoto in proposito: alla mia prima Transgrancanaria sono partito molto piano, quasi camminando. Avevo il pettorale girato dietro ed alle mie spalle c’era un gruppo di spagnoli. Hanno iniziato a… prendermi un po’ in giro (“gipeto, gipeto…”). Io ho fatto finta di niente e tra me e me ho pensato: “Sì sì, vediamo tra un po…!” E infatti poi è andata bene, dai… Sono quelle cose che tendono a capitare nelle gare lunghe. Magari te ne dimentichi e poi ti tornano in mente a distanza di settimane o magari mesi e… ti metti a ridere da solo oppure… a piangere dall’emozione! Quando corri tante ore di notte poi, ad un certo punto inizi ad essere assalito dai pensieri, ti vengono le allucinazioni, vedi cose che non esistono. Io peraltro di notte me la cavo piuttosto bene.

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È più verso l’alba che sento la stanchezza. Poi quando il sole inizia a salire in cielo va sempre meglio. Il fatto è che se stai bene affronti più o meno tutto. Se invece hai qualche problema o ti senti debole, allora la faccenda diventa… troppo complicata! Per quanto riguarda i microsonni poi… fino ad ora non ho quasi mai dormito durante una prova ultra. Però c’è un video nel quale... praticamente dormo mentre mangio, questo sì! Dormire nel vero senso della parola però no. Sono arrivato ad una quarantina di ore filate di veglia, forse quarantadue. Certo, quando arriva lo stimolo ti butteresti per terra lì dove ti trovi! È anche questione di adrenalina, del contesto specifico, di tutto l’insieme. Dipende anche da come stai correndo: se non sei proprio nelle prime posizioni, te la puoi prendere… comoda: se sei davanti invece no! Sono curioso di vedere cosa succederà al Tor: lì qualche pausa te la devi prendere per forza!

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Recentemente ho chiesto al tuo corregionale Alberto Vender (atleta dei Brook Trail Runners) un parere sul dibattito che corre sottotraccia a proposito delle differenze (e delle differenti valutazioni) tra corsa in montagna da un lato e sky/trairunning dall’altro. Qual è il tuo punto di vista, tra l’altro dall’alto di un’altra prospettiva. Anzi, da un’ultra…

MG: È un po’ come confrontare corsa su strada e su pista: sempre di corsa si tratta, corsa veloce. Io la vedo più come una scelta personale, relativa agli aspetti che vuoi migliorare. Nella corsa in montagna devi essere veloce: ruota tutto intorno alla prestazione fisica, che inevitabilmente con l’aumentare dell’età tende a calare, insieme ai risultati. Non è un caso che tutti i top runners siano molto giovani. Nel trailrunning secondo me contano di più altre capacità. Anche a livello cognitivo ed organizzativo, perché in questa disciplina bisogna rimanere concentrati molte ore di fila, evitare errori, conoscersi e conoscere i materiali che si utilizzano.

© DF Sport Specialist

Nella forma, trovo giusto che non ci siano grandi differenze tra corsa in montagna classica e trail. Quest’ultima però, se vogliamo, è una specializzazione un po’ diversa. Legata soprattutto all’età: dai trent’anni in su si può pensare alle lunghe distanze, al di sotto invece è il caso di concentrarsi sulle “sparate”. È anche un discorso di metabolismo. Per quanto mi riguarda, corro da sei-sette anni, seguendo un certo programma (però senza preparatore, diciamo da autodidatta) e vedo che il fisico si adatta via via. Anche al termine di un periodo di scarico, alla ripresa degli allenamenti mi accorgo di non aver perso moltissimo. Mi sento comunque in forma. Al contrario, chi corre su distanze brevi perde tantissimo, se non si allena forte ed in maniera precisa. Tra i miei amici e gli altri atleti che incontro alle gare, ce ne sono oltre la cinquantina, anche sessantenni che sono “tranquillamente” in grado di portare a termine un ultratrail.

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Per concludere la nostra chiacchierata, Marco: ha dimostrato le tue capacità su gare da duecento e passa chilometri ma… hai già preso in considerazione esperienze ancora più estreme, tipo le prove endurance nordamericane? Di recente si è parlato della massacrante Barkley Marathons, il cui traguardo nessuno riesce più da anni a raggiungere…

MG: Sto facendo più di un pensierino alla Barkley. La procedura d’iscrizione è un po’ macchinosa. Bisogna candidarsi scrivendo una lettera di presentazione e poi… sperare che ti rispondano e poi di essere accettati. Mi attira molto e - visto che nessuno la porta a termine da anni - pensavo di puntare sul fatto che sarei il primo italiano a provarci. È una bella sfida, una prova molto ambita. E poi mi piacerebbe correre una ultra a tappe nel deserto, tipo la Marathon des Sables o una prova simile nell’Oman. Una cosa alla volta, però, non tutto insieme… Altrimenti diventa dura! 

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