La nostra esperienza nella durissima Ultra Skymarathon della Val Serina, prova unica del Campionato Europeo di skyrunning
Dalla vetta panoramica del Grem la sagoma dell’Alben appare in tutta la sua imponenza ”dolomitica”. Ma ormai è poco più di un miraggio nella foschia del primo pomeriggio di questa caldissima domenica di inizio settembre.
-“Scusate, che ore sono?”
-“L’una e un quarto. Ormai non ce la fai più ...!”
La risposta dei volontari al ristoro di vetta taglia un po’ le gambe ma non giunge inattesa. Ormai mi era tutto chiaro da un pezzo. Per essere ammesso a proseguire fino al “mitico” Alben dovrei raggiungere in un quarto d’ora il cancello orario giù al Colle di Zambla. Servirebbero le ali. Ma sono sereno: la MAGA Ultra Skymarathon (quasi 54 chilometri, 5000 metri di dislivello positivo) quest’anno è stata scelta dalla ISF (International Skyrunning Federation) come prova unica per l’assegnazione del titolo europeo di specialità. Italia, Spagna, Portogallo e Repubblica Ceca sono ben rappresentate. Poi Svezia, Norvegia, Andorra, Austria, Russia. Atleti ed atlete da quattordici nazioni. Si, insomma, anche se mi ritiro … ci posso convivere. Chiuderò la mia prova al chilometro 36, tecnicamente “squalificato” per fuori tempo massimo ma … con piena soddisfazione. Il problema, quando la posta è così alta ed il chilometraggio equivale in pratica … all’età anagrafica, non è tanto trovare le forze per arrivare fino in fondo quanto l’incoscienza di mischiarsi ai campioni, ai top runners, con la consapevolezza di essere lì solo a fare numero.
Già, il numero, il pettorale. Quel 103 “spillato” sulla mia casacchina biancorossonera della Sportiva Lanzada (Valmalenco) finisce per stregarmi, come tutte le altre volte. Il mio spirito è comunque competitivo. Meglio chiudere la prova anzitempo alla MAGA che fare più o meno bella figura in un “diecimila stradale”, in un trail più abbordabile oppure in una mezza maratona. Ognuno vive la passione a modo suo: questo è il mio. Se ci rinuncio, faccio prima a smettere.
La sveglia suona alle 03.45 della notte nella cameretta dell’appartamento di Oltre il Colle del mio vicino di casa Mauro e di sua figlia Micol che si sono offerti (oltre che di ospitarmi) di farmi da team d’appoggio per il “Mostro”. Si perché così è soprannominata la MAGA. Acronimo che sta per Menna-Arera-Grem-Alben: le quattro vette della Val Serina che siamo chiamati a toccare. Anche se io, come già detto chiuderò la mia collezione a quota tre …)
Raggiungiamo in auto la località di Zorzone, dove è fissata la partenza. Ci pensa lo speaker dalla voce tonante a finire di svegliarci. Noi, ma anche … tutto il resto del paesino! Il “bello” è che, allo start delle cinque e trenta, parte un breve ma rumoroso festival di fuochi d’artificio (mah …!) che, da dietro le tapparelle delle case lì intorno, qualcuno avrà sicuramente accompagnato con parole irriferibili: in bergamasco stretto …
Tre o quattro tornanti d’asfalto, un tratto di sterrato nel quale supero Sandro (che mi ero preso come punto di riferimento e che mi ripassa quasi subito ed in modo … definitivo) e via che ci inoltriamo nel sentierino single-track nel bosco. Si risale e poi si attraversa sul suo fondo un vallone dalla vegetazione via via meno fitta dove – non richiesto - un commissario mi conta già “P121” su 139 partiti.
Andiamo bene … Siamo già a remare nei bassifondi della classifica.
Poi ci inerpichiamo su per una larga cresta prativa: una specie di campestre in salita che mi fa penare. Perché io la campestre proprio non la digerisco. Infatti arretro, in questo tratto, di almeno altre sette-otto altre posizioni, quindi risucchiato verso il fondo. La “scopa” che chiude la gara si avvicina minacciosa. Ultimamente è un po’ una sgradita costante. Beh, almeno le creste del Menna le affronterò senza troppi avversari a mettermi pressione da dietro.
Inizia ad albeggiare, spengo la frontale e la abbasso sul collo. Non ho voglia di metterla via, adesso. Ho in mente le Creste del Menna, appunto. Mi hanno messo l’agitazione addosso nelle scorse settimane. Me le avevano dipinte come un tratto temibile ed un paio di video “grandangolari” su internet mi avevano confermato il loro carattere minaccioso, un po’ vertiginoso. Ma ormai sono qui. E loro sono lì davanti a me, ‘ste creste. Iniziamo. Ogni tanto si appoggia a sinistra, ogni tanto a destra. Di sotto non guardo: mi concentro sui pochi decimetri quadrati sui quali appoggio ogni singolo passo. Ma poi, per ora non mi sembra niente di che. Nei passaggi un po’ più alpinistici, la presenza di gente esperta, tecnici del Soccorso e Guide Alpine (appollaiati in posizioni improbabili, per lasciarci spazio) è comunque d’aiuto. Ti suggeriscono dove appoggiare i piedi, come girarti rispetto alla parete e soprattutto (almeno per quello che riguarda i miei limiti tecnici) ti forniscono la chiave di tutto:
“Tu afferra la corda e fidati di lei”.
Faccio così e mi trovo bene. Fin troppo, mi sa. Perché, una volta ricevuta la “rivelazione” (quindi più sollevato) scatta una specie di “click” e prendo a calarmi giù dai passaggi più impegnativi con una certa disinvoltura, senza più stare a cercare gradini esagerati per i piedi, semplicemente lasciandoli scorrere sulla roccia un po’ così in qualche modo. Della serie: “Don’t Do This At Home”.
Fatto sta che raggiungo la fine delle difficoltà più o meno in scioltezza e ricomincio a correre. Su e giù per prateria alpina e tratti variamente vallonati. Non conosco bene la zona, quindi inizio ad avere problemi di orientamento ma il problema è largamente secondario. Tutto segnalato a dovere. Quindi via così. Non so, fin dalla decisione di correre la MAGA, sto affrontando questa prova con una leggerezza altre volte sconosciuta … L’unico rovello era stata – appunto - la questione delle creste.
Raggiungo nelle posizioni di coda Capanna 2000, sede del primo cancello orario. Ma lo faccio comunque con un anticipo di tre quarti d’ora sulla sua chiusura. Quindi direi fin qui bene. Mah, diciamo bene. Si insomma, accettabile. Potrebbe anche andare meglio. Nel lungo (noiosetto?) traverso alla base dell’Arera (la prima “A” di MAGA) decido di cambiare approccio, all’insegna dell’improvvisare di meno, progettare di più. Investo tutto nell’inseguimento alla canotta arancione di Sarah, trailrunner veronese, specialista di Spartan Races (quelle disseminate di ostacoli di varia natura, come dei percorsi di guerra) che mi ha superato alle prime luci dell’alba e che (dopo un lungo inseguimento) finalmente riesco a rimettere nel mirino. Lei è molto più forte di me nelle salite, io le recupero terreno lungo le discese: un classico. Nei facili tratti attrezzati che affrontiamo ora procediamo invece più o meno pari. Vuole lasciarmi andare avanti.
No, guarda. Sto bene così …
Giriamo un po’ alla volta intorno all’Arera, guadagnando gradualmente quota. Poi cambiamo versante. Alcuni tratti di ferrata, in calata. Non proprio banali ma, almeno per oggi, questo genere di difficoltà è ormai “sdoganato”. Solo che, un canalino dopo l’altro, ci siamo di nuovo abbassati parecchio (tanto che ricompare la vegetazione) e poi tocca iniziare a risalire per un pendio costellato di pietre bianchissime e roventi … Anche perché siamo ormai a metà giornata. Il sole è alto, questa montagna … pure.
“Ma tu sai dove siamo? Io ho completamente perso l’orientamento”, faccio alla mia compagna d’avventura, prima che lei mi stacchi di nuovo lungo l’erta e sparisca into the distance. “Si, lo so”. Poi via dentro un vallone dal sapore decisamente dolomitico. Che spettacolo, e che fatica! Una svolta brusca e prediamo decisamente la direzione della vetta. Sulla quale compare – contro il cielo – la sagoma arancione dell’arco gonfiabile posto proprio sulla cima. Che però da qui sotto sembra difesa da pareti verticali …
Si, ma da dove … si passerà?
Ci vuole un’altra mezz’ora di impegno “pronunciato” per arrivare a stringere tra le mani la chiave del mistero, il punto debole di questo settore dell’Arera. Si tratta di un divertente canalino tra alte rocce, ancora una volta da risalire a forza di sole braccia e dal quale usciamo verso sinistra con un passaggio abbastanza intuitivo: solo da “gattonare” un po’. Il gonfiabile ormai è lì sopra. Mano a mano che riescono a scorgere il nostro numero di pettorale (e quindi a risalire al nostro nome) i ragazzi appollaiati in vetta iniziano ad urlarci un incoraggiamento personalizzato che … raddoppia le forze. A me poi tocca il supporto aggiuntivo di una specie di angelo custode perché, ad un punto di controllo appena sotto, uno dei ragazzi che lo presidia … prontamente lo abbandona e mi viene dietro fino in vetta. Mah, forse mi ha visto un po’ provato e ha deciso di assicurarsi che arrivassi su senza danni. In ogni caso, grazie del pensiero!
Doppiata la vetta temporaneamente “deturpata” dal gonfiabile, con una breve traversata di un centinaio di metri ci lasciamo alle spalle anche quella che mi sembra l’anticima, occupata dalle antenne (…) ed iniziamo la discesa, a tratti ripida, che ci consente di lasciarci alle spalle la roccia e di raggiungere di nuovo la quota dei prati. Un po’ più rilassato, inizio a riflettere circa le mie chances di raggiungere per tempo il cancello di Zambla (limite massimo: otto ore dal via).
Speranze di farcela: molto ridotte.
Intanto penso ad inerpicarmi sulla facile mulattiera che porta al Monte Grem (la “G” di MAGA), la più semplice delle quattro del menu di giornata. Solo che dopo l’antipasto del Menna, il primo piatto dell’Arera e la pietanza del Grem, il “dolce” dell’Alben mi lascerà … l’amaro in bocca. Nel senso che non ci arriverò mai e dovrò tirare la cinghia fino all’anno prossimo.
Già perché adesso come adesso ho le gambe molli ma la testa … la testa, quella è dura e, visto che oggi non mi sono spezzato nemmeno una falangetta, nel 2020 le mie scarpe da sky torneranno a mordere i sentieri di questo scorcio di Orobie bergamasche.
Giù dal Grem (ed incassata la sentenza di cui all’inizio: “a Zambla siete fuori”) consiglio caldamente a Sarah di smettere di tirare e di scendere insieme a ritmo blando.
“Siamo stanchi morti. A correre giù per questi pratoni rischiamo solo di farci male e per cosa poi? Un traguardo ormai irraggiungibile. Non so te, ma per me la stagione autunnale trail e sky è ancora lunga. Meglio pensare alla prossima”.
Insomma il focus è portare a casa le caviglie sane (o quello che ne resta dopo i danni prodotti dalle gare di giugno e luglio). Quindi poi solo una lunga, anzi interminabile traversata fino al valico stradale di Zambla, invaso dai motociclisti in pausa pranzo. Guadagno senza fretta una dura panchetta all’ombra, mi tolgo di dosso e lascio cadere a terra lo zainetto. Sudato fradicio, un po’ stranito. Completamente indeciso se essere soddisfatto o deluso. Quasi nove ore di gara, l’ultima delle quali a ritmo di passeggiata domenicale. Mah! E pensare che Christian Minoggio si è aggiudicato per l’Italia il titolo europeo, raggiungendo il traguardo di Serina (il traguardo dei 53k, mica il cancello di Zambla!) in sei ore e 37 minuti, staccando di un quarto d’ora lo spagnolo Manuel Merillas e di venticinque minuti l’altro azzurro Daniel Jung. Mentre, al femminile, il derby Italia-Spagna se lo sono aggiudicato gli iberici con la tripletta firmata da Ester Casajuana Reyes, Sandra Sevillano Guerra e Silvia Puigarnau Coma: prima, seconda e terza.
Poi smanetto sullo smartphone (certi vizi non passano mai), avverto a casa che sono tutto intero, scrivo un pensiero agli amici, mi aggiorno sulle cose della redazione. Poi, sbrigate le cose “urgenti”, chiamo Mauro e gli chiedo di venirmi a prendere. Con calma, che tanto io da qui non mi muovo più. Se non per andare appena più in là ad avvertire gli organizzatori che mi sono fermato. Mica che scattino le ricerche del numero centotre …
Poi la solita sensazione bipolare:
Uno: meno male che è finita.
Due: Non vedo l’ora di ricominciare.
Prossima missione: ZacUp Skyrace del Grignone a Pasturo, metà settembre. Terza tappa italiana delle Migu Run Skyrunner World Series dopo la Skymarathon di Livigno (io c’ero!) e la Royal Ultra Gran Paradiso (manca! La VUT in Valmalenco aveva e avrà sempre priorità assoluta).
World Series … L’elite mondiale in Valsassina!
Ecco appunto. Ma perchè?
Eh, la testa dura …