QuarTrail des Alpages, correre nella tormenta

La nostra esperienza in una “classica” trail valdostana che pioggia gelata, neve e nebbia hanno trasformato in un'emozionante avventura

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-“Tutto bene?” -“Bene è una parola grossa. Comunque si, grazie: tutto a posto”. -“Se sei arrivato fin qui, vai bene di sicuro!” Lo scambio di battute con i due agenti della Forestale si svolge sull'uscio della costruzione che – all'alpeggio di Seyvaz – ospita il terzo ed ultimo ristoro del QuarTrail des Alpages. Quello che “normalmente” apre e chiude l'anello alto del percorso da cinquanta chilometri. Il maltempo ha però costretto gli organizzatori a rimaneggiare l'itinerario, portandolo a 46 chilometri e poi – a corsa già iniziata - riducendolo ulteriormente (e necessariamente ) a 41 circa. E così, invece che incamminarmi verso l'alto, mi avvio verso valle per il finale di gara.

Finale per modo di dire, visto che davanti ho ancora una quindicina di chilometri abbondanti, una salita importante e, appunto, condizioni meteo da pieno inverno (altro che primavera inoltrata!) che compensano ampiamente i tagli al programma originale. Si tratta pur sempre di una distanza da … maratona! Per la 50K l'appuntamento è solo rinviato al 2020 perché al QuarTrail des Alpages ci torno di sicuro e non solo per vedere prati in fiore al posto di campi di neve. Siamo partiti alle prime luci del giorno (dire “del sole” è un po' come rispondere a quelli della Forestale di cui sopra che “va tutto bene …”) dallo spettacolare Castello di Quart. La strada si impenna subito senza tanti complimenti per una serie di zig-zag che porta ad una più tranquilla strada poderale. Ma non mi faccio troppe illusioni perché so già cosa mi aspetta. Trovandomi per una volta parecchio fuori zona rispetto al mio abituale campo d'azione, ho infatti studiato a fondo cartine ed altimetrie del percorso da metà gennaio, da quando cioè l'organizzatore Claudio Herin mi ha invitato a prendere parte alla sua gara. Ecco, sembra che il tempo abbia invertito la marcia e che siamo tornati ai primi giorni dell'anno … Per non sbagliare intanto metto nel mirino un paio di treccine bionde che ondeggiano al ritmo della corsa pochi metri davanti a me. Il metodo è infallibile e collaudato … Fino a quando “Heidi” non decide inaspettatamente di tirare il fiato, costringendomi un po' malvolentieri ad andare oltre. Non la rivedrò più. L'inerzia della corsa mi porta a correre in compagnia di un bel gruppetto nel quale mi trovo a mio agio: forse perché siamo tutti “anta”.

Chi più, chi meno. Alla pioggerella iniziale si sostituisce rapidamente la pioggia gelata. Tra mezz'ora saremo in pieno “blizzard”. Le palline gelate cadono al suolo e rimbalzano allegramente due o tre volte prima di posarsi definitivamente. Credeteci oppure no, nel silenzio ovattato dalla nebbia se ne sente distintamente il tintinnio. Un'agilità – la loro – che vorrei avere io: già adesso ed a maggior ragione tra cinque o sei ore, quando la nebbia invece che sopra l'avrò dentro la testa. Poi arriva la neve. I primi fiocchi iniziano a cadere sul sentiero che, abbandonate le comode poderali e le strade tagliafuoco, nonché un bellissimo tratto di discesa ripida (che affrontiamo “a tutta” ma disciplinatamente in fila indiana) porta fino il pianoro dell'alpeggio di Cènevè, già completamente imbiancato. Qui si inverte la rotta per il lungo traverso in salita che (prima nel rado bosco in costa, poi su cresta meno che elementare) risale la montagna fino alla Croce di Fana. Siamo in piena tormenta ma ci convinciamo che (essendo tutti ben equipaggiati) per una volta non dobbiamo difenderci da sole a picco e calura. Per me però non sarà esattamente così. Il terreno offre una buona tenuta, visto che il percorso nella neve è stato completamente battuto per noi nei giorni precedenti dallo staff e che lo strato di “fresca” per il momento non ha effetti sulla “performance”. La discesa fino al secondo ristoro di Fonteil è ripida, spettacolare, a tratti emozionante. Dimentico subito la raccomandazione del commissario di percorso poco fa, su alla Croce: “massima attenzione in discesa!” Si, ciao … Senza perdere di vista il terreno che ho sotto le mie Akyra nuove di zecca (che rischio osarle “pronti via” in una giornata così) e soprattutto qualche metro davanti a me, prendo di volta in volta come punto di riferimento il concorrente che mi precede e riesco a concedermi il lusso di un paio di ricongiungimenti ed annessi sorpassi: l'autostima in certi momenti è più utile di un sorso di the caldo o di una barretta energetica. La tregua dalla bufera non regge a lungo. Risalita la parte bassa del Vallone di Seyvaz e superato il gradino che lo separa da quella alta, il panorama si apre sulla testata del Vallone stesso. Ancora una volta, viene da dire: “si aprirebbe”. Perché i profili delle cime che lo racchiudono si intuiscono a malapena dietro la fittissima cortina di nebbia. Incrocio i miei ex-compagni di inizio gara che, in un momento di “crisetta” da freddo intenso, mi erano implacabilmente scappati via, e che hanno da poco imboccato la via del ritorno dopo il ristoro di Seyvaz. Dove mi concedo una sosta anche più lunga del necessario sotto un tetto vero, all'invitante calduccio proveniente dal pentolone del brodo sulla cucina a gas …! Rigenerato da questi cinque minuti di relax trovo lo slancio per affrontare con un certo piglio l'ultima asperità di giornata, come si direbbe al giro d'Italia: il Col Cornet (che richiama più che altro il Tour de France!). La pista è ben battuta, anche perché al lavoro degli organizzatori si è aggiunto quello dei concorrenti che mi hanno preceduto sulla traccia: molti di loro! Per una volta, quasi quasi non mi dispiace correre nella pancia del gruppo, molto nella pancia. Dopo lo scollinamento, ancora qualche chilometro in perfetta e magica solitudine, a parte la compagnia dei bastoncini, oggi fondamentali compagni di viaggio. Chi mi precede è ormai troppo lontano. Chi mi segue … non deve prendermi e non lo farà! Con l'abbassarsi della quota, la traccia nella neve diventa sentiero, poi mulattiera, poi strada poderale. Addirittura un tratto di strada asfaltata all'altezza delle case di Trois-Villes, per l'ultima inversione di marcia.

Agli ultimi volontari che incontro chiedo solo quanto manca al traguardo. Non che non ne sia consapevole: ho solo voglia di scacciare la malinconia di una bellissima avventura che si avvia al suo epilogo e poi un pur veloce scambio di battute torna utile per tenere desta l'attenzione. Da Seyvaz in poi infatti ho corso praticamente da solo. Inevitabile, nel finale di una gara che (per me) sfiorerà le otto ore, che è lunga una quarantina di chilometri ed aveva al via solo novantacinque atleti tra i quali il francese Nicolas Pianet (primo al traguardo in quattro ore e trentanove minuti, appofittando anche dei crampi di Erik Bochicchio nel finale) e Tatiana Locatelli, vincitrice della prova femminile, da lei chiusa appena sopra il muro delle sei ore. Siamo all'ultima manciata di chilometri e la sola urgenza è quella di evitare qualche “disastro” fuori tempo massimo sulle sconnessioni del sentierino finale, che potrebbe avere ripercussioni pesanti sugli appuntamenti agonistici estivi sognati (e preparati!) per tutto l'inverno. Quello vero, non questo …! Per fortuna sulla mia strada trovo qualche ritardatario della gara da 26 chilometri (vinta dall'elvetico Antoine Piatti e da Gloriana Pellissier – nel 2018 prima nella 50K - davanti alla rientrante Lisa Borzani) che mi impegno a raggiungere e saltare. Alle due ragazze che aggancio sulle ultime svolte del sentiero sopra il castello non me la sento però di fare la sbruffonata di un plateale sorpasso sul filo di lana. E poi la cattiveria agonistica è inevitabilmente evaporata con il passare dei chilometri e del dislivello accumulato (circa tremilaseicento metri) ed alla fine devo averla lasciata lassù da qualche parte in mezzo alla neve. Insieme alla voglia di tornare a Quart l'anno prossimo per tentare la distanza completa, per correre (si spera!) sotto un cielo azzurro e sulla prateria d'alta quota. Perché la neve è uno spettacolo anche (forse soprattutto) fuori stagione ma il profumo delle erbe di alta montagna è qualcosa di inebriante, che ti fa dimenticare la fatica più intensa. Magari solo per un attimo, ma un attimo senza tempo. Come la neve a maggio.

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