"Numero ottanta, stai bene? Sei sicuro?": cara Vut, una dura lezione ma l'anno prossimo torno!

Il ritiro non è un fallimento ma un insegnamento per il futuro: la Valmalenco Ultra Trail di Stefano Gatti

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“Magnificent Desolation”: l’espressione usata cinquant’anni fa da “Buzz” Aldrin per descrivere il paesaggio lunare non potrebbe descrivere meglio anche lo scenario che ci si presenta davanti agli occhi (e sotto la suola delle scarpe) alle primissime luci dell'alba dalle parti dello sbocco superiore del vallone di Sassersa, uno dei tratti più impegnativi della VUT: un acronimo brevissimo che sta per Valmalenco Ultradistance Trail e si prende la briga di provare a riassumere (in tre sole lettere, appunto), un’avventura alpina di novanta chilometri e seimila metri di dislivello, da coprire nel tempo massimo di ventiquattro ore. Il primo dei tre laghetti di Sassersa è lì da toccare e verrebbe voglia di uscire dal percorso per visitare anche gli altri due, che si trovano appena più in là ma nascosti alla vista e così tornare indietro di parecchi anni… Se non fosse che c’è una gara da correre e sono già parecchio in ritardo. Le acque del laghetto infatti sono nere quasi quanto la mia “maglia”. Una crisi di freddo lungo la risalita della Val Torreggio, in direzione del Rifugio Bosio-Galli, ha prodotto gravi danni alla mia già fantascientifica e quindi traballante strategia: sensazione di gelo, mani viola come nemmeno a tremila metri nel mese di gennaio, e di conseguenza posizioni perse a grappoli.

Al ristoro della Bosio afferro poco convinto un bicchiere pieno raso di una sostanza imprecisata ma una scarica di tremori lo svuota quasi completamente ... Qui si mette male. Mi precipito nel piccolo atrio d’ingresso del rifugio alla ricerca di un po’ di tepore, cercando di nascondermi alla vista del dottore (casomai fosse lì!). Non vorrei rischiare uno “stop” anticipato ... E dire che al briefing tecnico di poche ore fa a Chiesa in Valmalenco Fabio Cometti, il leader del comitato organizzatore, ci aveva avvertiti: “Copritevi bene salendo alla Bosio: quella è una zona umida e … traditrice”. Aveva proprio ragione. Ed ero pure stato attento! Mi riprendo abbastanza rapidamente (ci mancherebbe altro) e riparto ma, appunto, il danno è fatto. Troppo presto comunque per alzare bandiera bianca. Non ancora, non ancora! La strada adesso è ampia, prevalentemente in discesa. La Luna, sempre lei, è già sorta, riveste d'argento le pareti verticali e regala un’atmosfera magica che mi aiuta … a sognare una ripresa delle “quotazioni”.

Ancora di più lo fa il calore dei volontari e dei valligiani ai ristori e negli alpeggi che incontriamo lungo l’itinerario. Tutti lì a fare il tifo, grandi e piccoli, nel cuore della notte! Uno spettacolo secondo solo (anzi, primo a pari merito) a quello della doppia partenza da Chiesa in Valmalenco (per noi della gara individuale) e da Lanzada (per il primo elemento delle squadre iscritte a quella a staffetta). Sette chilometri "a tutta" fino a Torre Santa Maria dove entro "scortando" Giuditta Turini che tra sedici ore e mezza vincerà la gara al femminile ed alla cui uscita "attacca” il sentiero nel bosco . Sfiliamo emozionati e felici tra due ali di folla: campanacci, urla, richieste/offerte di “cinque” da parte dei bambini a bordo strada. Roba difficile da descrivere.

Quindi, dai, meglio tornare in alto, che … sono già drammaticamente in ritardo! Lasciati alle spalle i laghetti di Sassersa spengo finalmente la luce frontale. Il menu prevede ancora (come ormai da un’ora a questa parte) il passaggio da un masso all’altro, saltellando per quanto possibile, aiutandosi con i bastoncini che una volta sì e l’altra pure si incastrano tra i sassi, ogni volta sul punto di spezzarsi o quantomeno piegarsi. Il Passo Ventina (con i suoi 2675 metri uno dei punti più alti raggiunti dalla VUT) non è poi tanto lontano. Il mio compagno di avventura (mi scuserà se non lo cito per nome e cognome ma mi rendo conto solo ora di non aver mai letto il numero sul suo pettorale, tantomeno le generalità stampate sopra) non fa neanche finta di provare a … darmi il cambio: gli faccio troppo comodo lì davanti, a fare il ritmo (“se vabbè” direbbe il mio amico Ronny Mengo) ed a "testare" per suo conto se il prossimo masso è bello saldo oppure … traballante! Lui ha già deciso di chiudere la sua gara al cancello orario di Chiareggio, alle sette del mattino.

Sono le cinque e tre quarti quando raggiungiamo il valico e iniziamo a scendere su sentiero bello ripido e tracce di neve. Fatti due rapidi conti, lo spettro della resa inizia a farsi strada anche nella mia, di testa. Come un "bug" nel sistema. Comunque sia, raggiungiamo un paio di altri ritardatari erranti. Nonostante il tempo sia nettamente schierato contro di noi "scappati di casa", perdiamo volentieri qualche altro minuto per fermarci (in precario equilibrio) ad ammirare lo spettacolo di un’alba fiammeggiante sulle rocce del Disgrazia che squarciano il velo di nebbia mattutina. Non faccio neanche finta di tirare fuori lo smartphone: certe emozioni è meglio conservarle in fondo al cuore piuttosto che immagazzinarle insieme a tante "miserie" quotidiane nella memoria elettronica di un dispositivo, che ho riposto nello zainetto solo perché lo richiede il regolamento. Sul nevaio “perenne” (ci cammino sopra ogni estate da una trentina d’anni) che occupa la conca alla base dell'impennata decisiva verso il Passo, uno dei miei nuovi compagni di strada scivola a ripetizione e si lascia prendere dallo sconforto: “Di ultramaratone da venti ore ed oltre ne ho fatte tante ma si vede che devo proprio smetterla. Sto malissimo”.

Si profila al vicino orizzonte (troppo vicino) una gran bella "pettinata". Chiedo l’ora … all’innominato con il quale sto correndo da quando era ancora buio. Mi risponde: “Le sei e un quarto". Poi si affretta ad aggiungere: "Ma secondo te ce la facciamo ad essere a Chiareggio entro le sette?” “No”. “Io ho già deciso di ritirarmi, ma se corri tu ce la puoi fare …!” Non ne sono convinto. Nel dubbio però provo ad accelerare il passo (grazie per l'incoraggiamento, amico sconosciuto), giusto per non lasciare nulla di intentato. Acchiappo un altro esemplare di vagabondo d'alta quota (rassegnato quanto il classico gatto in tangenziale o se preferite un campo di neve ad agosto). Poi finalmente "attracco" allo storico Rifugio Gerli-Porro, sul bordo inferiore dell’Alpe Ventina, dove il suo gestore mi regala "al volo" la notizia più bella: “Ieri sera siete partiti alle 23 e dieci invece che alle 23, quindi il cancello giù a Chiareggio “chiude” dieci minuti dopo!” Perché non ci ho pensato io? Ad ogni modo non ho più scuse. “Ok, proviamo””. Lancia in resta (scusate, bastoncini in posizione di riposo) e via, mi scapicollo giù alla, coprendo in dodici minuti un dislivello di trecentocinquanta metri lungo la mulattiera. Vada come vada, almeno la coscienza sarà a posto. Gli ultimi cento metri su asfalto li percorro a passo di marcia (non possono comunque più fare alcuna differenza) e mi presento al banco degli imputati, pardon, alla postazione dei cronometristi davanti all’Hotel Chiareggio mediamente fiducioso in una sentenza favorevole: “Sono dentro?” “Si, mancano ancora … quattro minuti”.

Sono l’ultimo a passare in tempo attraverso il non troppo immaginario cancello, autorizzato quindi a ripartire. Faccio però a malapena in tempo a bere qualcosa ed a dirigermi verso la borsa con il cambio di vestiario quando uno degli organizzatori mi richiama all'ordine: “Numero ottanta, stai bene? Sei sicuro? Se vuoi continuare (si certo, e che ... caspita, ho appena finito una corsa a perdifiato giù per la montagna!) devi prepararti. Le ‘scope’ sono pronte a mettersi in marcia”! Dove per “scope” si intendono i volontari dello staff che (in due, tre o magari quattro alla volta) hanno il compito – importantissimo - di seguire sempre l’ultimo atleta in gara per prestare eventualmente soccorso a chi è appunto in coda alla corsa. Un po’ angeli custodi, un po’ “pungoli” (per essere politicamente corretti) ad andare avanti.

Mollo quindi barrette energetiche e maglietta di ricambio e riparto come se avessi il diavolo alle calcagna. Infilo il sentiero nel bosco ma mi guardo più alle spalle che davanti, cercando di capire “quando” mi prenderanno, non “se” lo faranno. Brutto segno. Mi sento braccato ed anche un po’ condannato e probabilmente sbaglio a leggere così la situazione perché (come a proposito del timing esatto del cancello) mi fa di nuovo difetto la lucidità necessaria per pensare che, anche se mi raggiungessero, non sarebbero autorizzati a superarmi, a meno che non sia io a decidere di abbandonare, cedendo loro il passo. Ma la testa e soprattutto il cuore (inteso come “sentimento” e non come organo muscolare) hanno già deciso che è finita: loro sono due contro uno (che sarei poi io). Magari è pure meglio salvaguardare le chances di fare bene tra una settimana nella 50 chilometri della Monte Rosa Walser Trail di Gressoney. Vado quindi "in protezione", se così si può dire. Raggiungo con un senso di liberazione il vicino controllo di passaggio gestito da due volontari della Protezione Civile, stacco il pettorale e glielo consegno, pochi secondi prima dell’arrivo delle “scope” di cui sopra che stanno accompagnando l’atleta arrivato prima di me a Chiareggio ma partito poco dopo.

Poi non mi resta che accettare il passaggio sul fuoristrada della Protezione Civile (comodo ma ... di una comodità "irta" di inevitabili sensi di colpa) che mi recapita piuttosto rapidamente al traguardo di Caspoggio. Dove arrivo … con un paio d’ore di “vantaggio” sui vincitori della gara a staffetta (il Ghiaccia Team Fiorelli Sport dell’amico Alessandro Bonesi, di suo fatello Mattia e di Valentino Speziali) e quasi quattro su Franco Collé, dominatore della terza edizione della Valmalenco Utradistance Trail, bissando il successo della prima, nel 2017. Ma, certo, non c’è niente di cui vantarsi!

È stata una "humbling experience", una dura lezione. Tornerò per rifarmi. Resiste pochissimo anche il dubbio tra ripetere l’azzardo dell’individuale o ripiegare sulla sostanzialmente più “sicura” staffetta. Un bivio davanti al quale non ho esitazioni sulla strada da prendere, tra dodici mesi. “Da solo anche l’anno prossimo, per andare un po’ più lontano”. Il tempo (quello che scorre sempre troppo veloce in gara, ma anche quello della vita stessa) gioca nella squadra avversaria, quindi il segreto sembra essere quello di riuscire a farne un alleato, almeno una volta (si, ma come)? Beh, magari un buon inizio può essere quello di "sposare" la preziosa intuizione di Jorge Luis Borges: Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono quel fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco. Cara VUT, torno a farti il solletico la prossima estate.

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