TRAILRUNNING

Cattive abitudini, anzi ottime: Winter Brich, il Trail più corribile delle Alpi

Rampe brucianti e discese senza paracadute nel menu del trail invernale di Valdengo, in provincia di Biella

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Cattive abitudini, anzi ottime: Winter Brich, il Trail più corribile delle Alpi - foto 1
© Matteo Zin

 

La playlist con la quale i due deejay ingaggiati dagli organizzatori iniziano a caricarci in vista del via di Winter Brich Trail mette in fila uno dopo l’altro titoli come “Bad Habits” e “Bad Decisions”. Roba suscettibile di insinuare qualche dubbio fuori tempo massimo nella testa e nei muscoli dei colleghi più titubanti o se preferite con meno bava agli angoli della bocca. Non è proprio il mio caso: sono straconvinto che spillarmi addosso il duecentoquarantanovesimo pettorale, fare il doppio nodo alle scarpe da trail e mostrare la faccia concentrata mentre vago sul piazzale del campo sportivo di Valdengo siano Buone Abitudini (anzi, Ottime) e poi ancora che venire qui, ai piedi della prima montagna biellese per il secondo anno consecutivo, sia il frutto di una serie di Buone Decisioni (per non dire: Ottime). Per quanto mi riguarda insomma, soundtrack azzeccata ed altamente motivazionale.

Cattive abitudini, anzi ottime: Winter Brich, il Trail più corribile delle Alpi - foto 4
© Winter Brich Trail

 

La traccia della prova da 23 chilometri alla quale sono iscritto e soprattutto il suo profilo altimetrico incanalano senza troppi dubbi la mia (modesta) strategia di gara verso una direzione - quella della prova tutta “in gestione” ma se possibile non priva di un finale volitivo - per quanto mi riguarda senza valide alternative. Saliscendi in serie per entrare nel vivo, poi innalzamento delle difficoltà (e della strada) nella parte centrale dell’itinerario e un finale a tutta, nel senso della discesa. Ah no, quello era l’anno scorso! Per la dodicesima edizione del loro evento di inizio stagione, gli organizzatori di ASD Winter Brich hanno “innestato” nel menu un dessert non immediatamente digeribile: una rampetta bruciante che vale come minimo la Menabrea in più che ritirerò al traguardo. 

La sveglia suona presto nella mia cameretta all’Agriturismo “La Fucina” che dista non più di un paio di chilometri dal campo base di WBT. Potrei prendermela calma insomma, invece come al solito “sento” la gara e non vedo l’ora di trovarmi nel frullatore. E poi la mia procedura è collaudata, minuziosa, anche un po’ paranoica. Aggiungiamoci pure lunga, a volte più della gara alla quale mi accingo a partecipare. Meglio quindi saltare i… preliminari e passare direttamente all’atto, pardon all’azione!

Cattive abitudini, anzi ottime: Winter Brich, il Trail più corribile delle Alpi - foto 6
© Matteo Zin

 

Partenza stile cross, roba che io digerisco a malapena perché sull’erba ho sempre la sensazione di affondare e di essere risucchiato dal terreno, faticando ad avanzare, stile (si fa per dire) astronauta che si dimena goffo e impacciato sul suolo lunare. Per fortuna ci si sposta subito sulla ghiaia (ahi… ahi…) ma è un attimo che siamo sull’asfalto e la strada si impenna mica male. Okay, il bitume è alle spalle, via baldanzosi (sì ma per quanto?) tra i sentierini che serpeggiano nel bosco del primo loop di gara: suppergiù (più su che giù) quattro chilometri già metabolizzati e ci troviamo al cospetto dell’imponente complesso del Castello medioevale che domina Valdengo e separa il piano dalle prime alture. Doppiamo il crocicchio dove - sulla via del ritorno - chiuderemo l’anello più grande (scoprendo la rampa dritto-per-dritto di cui alle prime righe) ed affrontiamo prima lo “zig” e poi lo “zag” in salita del classico passaggio di WBT che permette di raggiungere la cresta della collina, per tuffarsi subito verso nord per una breve ma decisa discesa in mezzo al bosco.

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© Matteo Zin

 

In un certo senso, la nostra ventitré kappa entra qui nel vivo, dopo il warm up (qualcosa di più per la verità) del primo anello. È in questa fase che il dna della prova affiora alla superficie della coscienza, dei muscoli e dei polmoni: saliscendi a volontà, dentro un alternanza di versanti che però - prima di entrare davvero in scena - richiede la frequentazione di settori in ombra che non di rado prevedono il passaggio su terreno duro (e fin qui non ho nulla in contrario, vista la mia avversione per il soffice e “affondevole” prato) ma anche a tratti ghiacciato. Nulla di particolarmente insidioso ma sarà meglio tenere gli occhi aperti e badare bene agli appoggi. Mi sono ripromesso di avanzare con regolarità e se possibile andare in progressione: al menu aggiungo ora una certa circospezione, soprattutto nell’attraversamento di qualche ruscello intorpidito dal gelo, solo che io non mi fido ugualmente del suo aspetto placido e "inoffensivo". Non sarà magari lo stesso che guadiamo una volta di qua e una di là? Scoprirò solo a posteriori che si tratta sempre del torrente Quargnasca. Ai meno “equilibrati” della zona della classifica che frequento (laggiù nell’Arizona della pancia del gruppo) la pratica costa uno scomodo pediluvio sottozero. Me la cavo piuttosto bene e riesco pure a mettere la freccia nei confronti di qualche collega ma tant’è: nel mio caso il pettorale rosso (numero 123) della prova lunga non identifica - come nella Coppa del Mondo di Sci - chi va per la maggiore ma… chi va per le lunghe!

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© Matteo Zin

 

Ritroviamo l’asfalto e al punto di ristoro chiedo alla gentilissima signora che mi offre il tè dove ci troviamo, non avendone la minima idea o quasi. “Ternengo, siete a metà strada”. Eh magari! Non so dove mi trovo “spazialmente” ma il GPS dice neanche nove chilometri! Al bivio tra la ventitré e la tredici salutiamo con la mano i colleghi che oggi se la cavano con sette-otto chilometri meno di noi (e metà dislivello, quattrocentocinquanta) attaccando la serie di saliscendi di cui sopra che portano ad affacciarsi al sole per poi tornare nell’ombra. L’esercizio comporta una strana sensazione di disagio interiore (e “intestino”) che per fortuna gestisco senza che la situazione precipiti.

Dalle parti del Castello di Zumaglia - punto più occidentale della gara - si materializza uno dei tratti più impegnativi: mulattiera bella ampia sì, ma pavimentata di ciottoli che non danno tregua alle nostre "sospensioni". Passi per le salite, ma i tratti a capofitto sono da trance agonistica. Nel senso che è meglio non pensare troppo alla tortura che ho sotto i piedi ad ogni passo. C’è solo l’imbarazzo della scelta: faccio tutta una tirata a rotta di collo (e possibilmente altro ancora) lungo un rettilineo alberato, ricoperto da miliardi dei suddetti ciottoli, poi svolta secca a sinistra per una bretella che introduce - non ne vedevamo l’ora - alla rampa che scala i 679 metri del GPM di giornata: il Brich di Zumaglia. Tocca giocoforza ad un rollercoaster in discesa: un tornante dopo l’altro. Me la faccio andare bene, senza affondare tanto i colpi, affiancato ad un collega credo di poco più maturo di me - Alberto - che ogni tanto butta lì una qualche constatazione alla quale rispondo a malapena: più per abitudine che altro.

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© Matteo Zin

Ormai ce ne siamo fatti sedici, non ne mancano poi tanti e all’altezza di Ronco Biellese tocchiamo terra, nel senso della pianura. Rotta verso est, senza dubbi di sorta. Asfalto e strada bianca, tutto dritto, massima velocità. Il freddo “definitivo” dei versanti a nord è un lontano ricordo, pure il fastidio allo stomaco. Tira e molla con l’amico di poco fa, che poi si insacca in una buca e si blocca con una smorfia. Lo raggiungo e mi fermo per sincerarmi delle sue condizioni, poi riparte e riprendo anch’io, facendogli da punto di rifermento. Il traverso che riporta a Valdengo è interminabile ma faccio mente locale e – pur cercando di tenere un ritmo decente - ne approfitto per prepararmi al finale di gara, al quale ci avviciniamo dopo aver contornato alla base le mura settentrionali del Castello di Valdengo. Chiudiamo l’anello grande ma - invece di proseguire direttamente per il centro sportivo come dodici mesi fa - ecco la… variante di valico! con un’espressione da… ambasciator non porta pena, il commissario di percorso ci indirizza verso l’ultima asperità di giornata: quella che tutti quanti indistintamente - dai top runners che sono già sotto la doccia a noi plotone degli amatori diversamente competitivi - in casi del genere definiamo una “cattiveria… bella e buona”: una rampetta che sul profilo altimetrico spunta come un bernoccolo sulla fronte e che sta al Winter Brich come la Cipressa alla Milano-Sanremo!

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© Matteo Zin

Arranco su come posso per il sentierino sempre più stretto e ripido ma per fortuna mi imbatto in un gruppetto di partecipanti alla camminata da nove chilometri che completa la proposta dell’evento: ottimo pretesto per tirare un attimo il fiato (“Mi sposto subito”. “Tranquillo, quando puoi”) prima che i fin troppo zelanti nordic walkers si facciano uno per uno da parte. Arrivato in cima al dosso, giro intorno alla chiesa di Sant’Andrea che troneggia lì sopra: non so più a quale santo rivolgermi ma per non sbagliare… li tiro mentalmente giù tutti quanti insieme a me (if you know what I mean) lungo la picchiata verso il traguardo, del quale sento già tutte le voci e vedo tutti i colori. Come ad inizio gara ora, ma alla rovescia: asfalto, ghiaia “cedevole” e poi il finale nel pratone che - mentre eravamo via - è stato arricchito di un paio di curve secche.

Cattive abitudini, anzi ottime: Winter Brich, il Trail più corribile delle Alpi - foto 5
© Winter Brich Trail

 

Scambio qualche battuta con i due colleghi che mi accompagnano verso l’arco dell’arrivo - ormai paghi della nostra trascurabile performance - quando ecco che (una tradizione molesta, ormai) dimentico della mia sosta per accertarmi del suo stato di salute dopo l'insaccata, il collega mezzo azzoppato - l'Alberto di cui sopra - passa me e loro a velocità doppia, come se in palio ci fosse la medaglia d’oro olimpica e non semplicemente quella di finisher! Questa cosa non la capirò mai, penso mentre taglio il traguardo dando un pugno-contro-pugno agli altri due colleghi. Chiudo in perfetta… media inglese, la mia: vale a dire un po’ (troppo) oltre la boa di metà classifica. Poi le strette di mano, qualche battuta con gli amici del comitato organizzatore e una foto con Franco Collé, che era di ritorno da queste parti già un’oretta fa, mentre io - per citare il poeta - “inseguivo una mia chimera”. Solo ora che l’ho raggiunta, la mitologica bestia, mi accorgo che non vedo l’ora di mettermi sulle tracce di qualche sua consimile. Su e giù per qualche altra montagna, lungo qualche altro sentiero, con il pettorale numero duecentocinquanta orgogliosamente attaccato ad una "fame" ogni volta che passa più inspiegabile ma sempre benvenuta.   

Cattive abitudini, anzi ottime: Winter Brich, il Trail più corribile delle Alpi - foto 3
© Stefano Gatti

 

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