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Incubo chip: l'automobile europea rischia un'altra profonda crisi

Il blocco dei chip Nexperia e le nuove restrizioni cinesi sulle terre rare mettono in ginocchio l’industria europea. Volkswagen lancia l’allarme: “servono soluzioni politiche immediate”

di Tommaso Marcoli
27 Ott 2025 - 11:24
 © Getty Images

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COSA SAPERE
 
- LA CINA BLOCCA L'ESPORTAZIONE DI SEMICONDUTTORI
- L'INDUSTRIA EUROPEA SI TROVA IMPREPARATA
- VOLKSWAGEN CHIEDE UNA VELOCE SOLUZIONE POLITICA

Dopo l’energia, l’Europa rischia di trovarsi di nuovo al centro di una crisi industriale senza precedenti. Questa volta il fronte è quello dei semiconduttori, il cuore pulsante dell’economia moderna, dai sistemi di bordo delle automobili all’intelligenza artificiale. La scintilla è partita dai Paesi Bassi, dove il governo ha assunto il controllo di Nexperia, azienda di chip con sede a Nimega ma di proprietà cinese. La mossa, giustificata come un atto di tutela della “sicurezza nazionale”, ha innescato una reazione durissima da parte di Pechino: stop alle esportazioni verso l’Europa. Da quel momento, la “chip war” tra Stati Uniti e Cina ha trovato un nuovo terreno di scontro — e a pagarne il prezzo, ancora una volta, rischia di essere l’industria europea.
Il caso Nexperia e il dominio cinese
Nexperia non è un nome noto al grande pubblico, ma i suoi chip animano quasi ogni sistema elettronico prodotto nel mondo: dai sensori dei motori ai moduli di controllo delle vetture. Dal 2018 è controllata da Wingtech, conglomerato cinese già inserito nella “Entity List” americana, che limita i rapporti commerciali con Washington. Quando l’Aja ha deciso di commissariare la società per “gravi carenze di governance”, temendo il trasferimento di competenze strategiche verso la Cina, Pechino ha risposto con una ritorsione immediata: il blocco delle esportazioni di componenti e semiconduttori verso l’Europa. Le conseguenze si sono propagate con la rapidità di un cortocircuito. Volkswagen ha già avvertito di non poter garantire la continuità produttiva nei prossimi mesi, e in Germania si parla apertamente di cassa integrazione. Toyota e Nissan, dall’altra parte del globo, denunciano difficoltà simili. La catena globale dell’automotive si scopre improvvisamente vulnerabile, stretta nella morsa di un sistema di forniture che, pezzo dopo pezzo, è finito sotto il controllo di Pechino. Dietro questa crisi c’è un dato strutturale: la Cina domina la produzione di terre rare, componenti essenziali non solo per i chip ma anche per batterie e motori elettrici. Oltre il 90% dei magneti permanenti utilizzati in Europa proviene dal mercato cinese. Un potere silenzioso, costruito in anni di politiche industriali mirate e di acquisizioni strategiche, spesso in Occidente.
La risposta europea che non c’è
A Bruxelles si parla di “dialogo costruttivo”, ma il confronto tra il Commissario europeo Maros Sefcovic e il ministro cinese Wang Wentao si è concluso con un nulla di fatto. Nel frattempo, le fabbriche rischiano di fermarsi. L’ACEA, l’associazione dei costruttori europei d’auto, ha lanciato l’allarme: senza i chip di Nexperia, la produzione potrebbe bloccarsi nel giro di poche settimane. E anche se esistono fornitori alternativi, la sostituzione richiede mesi di test e omologazioni. L’Europa, travolta prima dalla crisi energetica e poi dalla corsa inflazionistica, paga il prezzo di anni di disattenzione strategica. Mentre Pechino e Washington combattevano per il controllo delle tecnologie del futuro, Bruxelles discuteva di regolamenti e vincoli ambientali, lasciando che le fondamenta della sua industria scivolassero altrove. Il “Chips Act” europeo, approvato nel 2023 con l’obiettivo di rilanciare la produzione interna, resta sulla carta: pochi impianti, troppi vincoli burocratici e investimenti frammentati. A peggiorare la situazione c’è il riflesso condizionato di un continente che, per timore di conflitti commerciali, si è affidato alle catene di fornitura globali senza costruire riserve strategiche. Oggi l’Europa si trova senza autonomia industriale, costretta a mediare tra gli interessi americani e le ritorsioni cinesi.
Il rischio di un blackout industriale
Se Pechino decidesse di prolungare o estendere le restrizioni, l’impatto potrebbe travolgere l’intera manifattura europea, già provata dalla transizione energetica e dalla concorrenza dei veicoli cinesi a basso costo. Un’interruzione prolungata significherebbe fermare catene di montaggio, licenziare personale, e soprattutto perdere ulteriori quote di mercato globale. Per l’Europa, la via d’uscita passa da una scelta politica netta: investire realmente in una filiera autonoma, anche a costo di sacrifici a breve termine. Significa abbandonare la logica del “just-in-time” e tornare a quella del “just-in-case”, ricostruendo capacità produttive e riserve strategiche di materiali critici. Perché la prossima crisi — e forse è già cominciata — non sarà solo economica, ma di sovranità industriale. E in un mondo dove chi controlla i chip controlla l’innovazione, l’Europa rischia di restare, ancora una volta, spettatrice impotente della partita più importante del secolo.
L’allarme di Oliver Blume
Il timore che la crisi possa degenerare è condiviso anche dai vertici dell’industria. Oliver Blume, amministratore delegato del gruppo Volkswagen ha ammesso che, per ora, il colosso di Wolfsburg dispone di scorte sufficienti di semiconduttori. Ma l’avvertimento è chiaro: “Questa crisi dei chip mostra quanto fragile sia il nostro mondo. A differenza della scorsa, non riguarda componenti complessi, ma chip semplicissimi, usati in tutti i settori e soprattutto nelle automobili.” Blume chiede una “rapida soluzione politica”, consapevole che il nodo non è tecnico ma geopolitico. Il divieto imposto da Pechino sulle esportazioni dei prodotti finiti di Nexperia, in risposta al commissariamento olandese dell’azienda, sta aggravando le difficoltà di un’Europa già indebolita dai dazi americani e dalle restrizioni cinesi sulle terre rare. L’eco delle parole di Blume suona come un monito: l’industria europea non è preparata a un mondo in cui la stabilità delle forniture non è più garantita. Senza un intervento deciso dei governi, anche i colossi dell’automotive — simbolo della potenza industriale del continente — rischiano di ritrovarsi con i motori spenti.

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