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L'INTERVISTA

Leandro Castan e il dramma del tumore: "Spalletti mi umiliò, mi disse che non avrei più giocato con lui"

L'ex difensore brasiliano: "Con quella malattia è morta una parte di me"

18 Lug 2025 - 13:34
 © Getty Images

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C’è un momento preciso in cui la vita di Leandro Castán si spezza in due. È il 13 settembre 2014, una sera qualunque allo stadio Castellani di Empoli. La Roma è in campo, lui è titolare, ma all’intervallo chiede il cambio per un fastidio muscolare. In apparenza, niente di grave. E invece, racconta oggi con voce serena ma ferma: "In quei 15 minuti è finita la mia carriera. È morta una parte di me".

Leandro Castán ha 27 anni, è nel pieno della sua carriera, colonna della difesa giallorossa, nazionale brasiliano, con il futuro davanti. Ma quel giorno, inizia un incubo che nessuno avrebbe potuto prevedere. Nei giorni successivi, comincia a sentirsi strano: forti giramenti di testa, vomito, un dimagrimento impressionante. Perde 20 chili, non riesce ad alzarsi dal letto. I medici parlano genericamente di infiammazioni, ma non arriva una diagnosi chiara. Fino a quando, una sera, è lui stesso a scoprire la verità, per caso, su Twitter: "Leandro Castán ha un tumore al cervello".

Lì, il mondo gli crolla addosso. Non sapeva nemmeno esattamente cosa fosse. Solo dopo settimane, i medici gli spiegano tutto: ha un cavernoma cerebrale, una malformazione vascolare potenzialmente letale. La scelta è semplice quanto brutale: smettere subito con il calcio o operarsi al cervello. Lui, all’inizio, rifiuta. Troppa paura. "Avevo paura di non svegliarmi più".

Poi due cose cambiano tutto. Scopre che sua moglie è incinta del loro secondo figlio. E in tv, una sera, vede la Roma giocare. "Avevo un buco dentro, e volevo riempirlo. Non riuscivo a guardare una partita senza piangere. Ma quella volta, invece, ho sentito qualcosa. Una spinta". Dopo una settimana, si fa operare.

Il risveglio non è facile. I gesti semplici – tenere un bicchiere, camminare – richiedono fatica, pazienza, costanza. Ma Leandro è un lottatore. E non è solo. Attorno a lui, si stringe una comunità silenziosa ma potente: la sua famiglia, i compagni di squadra, i tifosi, e soprattutto la Roma. Il club gli rinnova il contratto nonostante sia fermo, copre tutte le spese mediche, lo tratta – dice lui – "come un figlio". Sabatini, De Rossi, Maicon, Alisson, perfino Del Piero e Baresi gli scrivono. "Quel calore non l’ho mai dimenticato".

Ma il ritorno in campo non è come se lo immaginava. Dopo mesi di recupero, si presenta a Trigoria pronto a rientrare. Ma trova Luciano Spalletti. L’incontro è freddo, tagliente. "Non sei più quello di prima", gli dice. Gli mostra una foto del Frosinone, gli fa capire che non farà parte dei suoi piani. Castán è devastato. "Ho pianto. Mi sono sentito umiliato. Avevo rischiato la vita, e venivo trattato così". Ma anche questo diventa una spinta. "Mi sono promesso che avrei camminato a testa alta, ovunque sarei andato".

Lascia Roma. Passa per Torino, Cagliari, poi torna in Brasile. Gioca nel Vasco da Gama, poi nel Guarani. Non è più lo stesso giocatore, ma è un uomo diverso. E oggi, a 38 anni, Leandro sorride. Sta studiando per diventare allenatore, vuole restare nel calcio, trasmettere ai giovani la sua esperienza, la sua fame, il suo coraggio. Ha trovato nella fede e nella psicologia nuovi strumenti per affrontare la vita. Non è più il difensore roccioso che lottava in area, ma è diventato un padre, un compagno, un uomo che ha guardato in faccia la morte e ha scelto di vivere.

E sogna di tornare, un giorno, all’Olimpico. "Voglio portare i miei figli lì e dire: guardate, papà ha giocato qui. E ha vinto la sua partita più difficile"

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