BUON COMPLEANNO

Lothar Matthaeus fa 60 anni: era il più forte di tutti

L'Inter, la Germania, le quattro mogli, il Pallone d'Oro, Maradona: la storia di un ragazzo eterno

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Ma dai, Lothar Matthaeus compie 60 anni. Prego, favorire i documenti. Non ci crede nessuno. Faccia da schiaffi e ghigno beffardo, sempre. Battuta immediata anche se supera i limiti dei politically correct. Ragazzo eterno, sempre con una valigia pronta per nuove avventure. Una carriera piena di trionfi, uno scudetto e una Coppa Uefa con l’Inter, un Mondiale e un Europeo con la Germania. E tanto altro.

Tic-tac, tic-tac. Rumore di tacchetti. Alluminio su linoleum, passi brevi, attenzione a non scivolare. Pochi gradini separano il gruppo di ragazzi dal doppio cerchio di facce urlanti (in breve sarà triplo) che li aspetta come gladiatori nell’arena. Davanti a tutti c’è una specie di carro armato, non troppo alto, compatto e con uno sguardo beffardo. Si gira e comincia a salire gli scalini che portano al sottopassaggio, San Siro è pronto a esplodere. Il carro armato si gira, guarda il resto della fila, poi sussurra nel suo italdeutsch: “Occi la finco io”. Oggi la vinco io. E la vinceva.

Sì, Lothar Matthaeus è fatto così. Adorabilmente presuntuoso, odiosamente vincente. Amico di tutti e di nessuno, isolato nella consapevolezza della sua forza. Capace di fare tutto con il pallone e senza pallone. Un giorno chiesero a Trapattoni se lo ritenesse un bravo ragazzo e l’immenso Trap rispose con uno dei suoi guizzi geniali: “I bravi ragazzi li posso presentare a mia figlia, quelli come Lothar li voglio sempre nella mia squadra”. Tutto chiaro, tutto fantasticamente chiaro. Lo scudetto 1988-89, la stagione in cui l’Inter polverizzò quasi tutti i record, porta la firma di quel numero dieci straordinario. D’accordo i gol di Aldo Serena, d’accordo le sgroppate selvagge di Nicola Berti, d’accordo le parate di Walter Zenga e la sua intesa perfetta con Beppe Bergomi e Riccardo Ferri, ma la differenza la fece soprattutto Lothar. La punizione con cui il tedesco segnò il 2-1 nella partita decisiva per la conquista aritmetica dello scudetto contro il Napoli era un “tutto” in grado di rappresentare il calcio: potenza, astuzia, classe, qualità.

All’Inter arrivò da vicecampione del mondo. Nella finale dell’Azteca, 29 giugno 1986, gli avevano chiesto di marcare Maradona proprio nel momento in cui non l’avrebbe fermato nemmeno l’esercito americano. Lothar provò a corrergli dietro per 90 minuti ben sapendo che non era quello il suo mestiere, non ne uscì con le ossa rotte, tutt’altro, ma l’Argentina dei gregari portò a casa la Coppa. Inevitabile o quasi. Però nella primavera del 1988, quando Ernesto Pellegrini incaricò il direttore generale Paolo Giuliani di piazzarsi a Monaco di Baviera per trattare a oltranza con il Bayern, il presidente nerazzurro aveva in mente un altro Matthaeus, non quello della finale, un giocatore che andava lasciato libero di giocare il suo calcio, di seguire la sua ispirazione, un fuoriclasse a cui affidare la maglia numero 10 (nel Bayern indossava l’8 e precedentemente nel Borussia aveva il 6 con una curiosa evoluzione numerica) e il compito di ricucire lo scudetto sulle maglie nerazzurre. E il Trap la pensava esattamente nello stesso modo. Così Pellegrini e Giuliani trovarono l’accordo con il Bayern, 8 miliardi di lire, accettando di aggiungerne altri 2,7 per portare a Milano anche Andy Brehme, che poi si sarebbe rivelato un acquisto straordinario.

Fare il calciatore è stato un destino quasi obbligato per il giovane Lothar, nato a Erlangen, nel cuore industriale della Germania, figlio di un magazziniere della Puma, limiti apparenti di una vita rivelatosi poi un vantaggio straordinario. Difficile da quelle parti pensare a distrazioni molto più interessanti del calcio, lì si lavora, tanto e quasi sempre, c’è poco sole e soprattutto negli anni ’60 c’erano proprio poche cose da fare. Ma mentre gli amici dovevano rattoppare continuamente le scarpe da calcio, Lothar aveva sempre il suo paio di Puma in condizioni perfette ovviamente grazie a papà Heinz. E poi c’era un piccolo particolare: era nettamente il più forte di tutti. Così dopo avere iniziato con la maglia del FC Herzogenaurach, a 18 anni passò al Borussia Monchengladbach che lo fece immediatamente esordire in Bundesliga. Il 7 novembre 1979 era in campo a San Siro in una notte di gloria per il Borussia, capace di vincere 3-2 contro l’Inter dopo l’1-1 dell’andata in Germania, passando così il turno in Coppa Uefa. A fine stagione era già agli Europei con la Germania Ovest laureatasi campione. Nel 1984 venne acquistato dal Bayern, 3 titoli vinti in 4 anni prima di scegliere l’avventura italiana.

Prima di Matthaeus, l’Inter aveva avuto un altro campione tedesco, Karl-Heinz Rummenigge, un giocatore che ha lasciato il segno pur avendo vinto zero durante la sua permanenza in nerazzurro. La sua straordinaria potenza esaltava San Siro. Lothar è stato un giocatore diverso, ma ancora più decisivo. Non lo fermava nessuno. Con il pallone tra i piedi era inarrestabile, la sua muscolatura straordinaria gli consentiva qualunque tipo di giocata. Maradona lo ha sempre considerato uno degli avversari più forti mai incontrati. I 9 gol segnati in quella stagione dei record sono stati fondamentali per la stagione, ma altrettanto importante è stato lo spirito vincente che la sua presenza ha portato in quella squadra abituata a molti alti e bassi.

Non altrettanto felice la seconda stagione interista, con la squadra del Trap fuori al primo turno di Coppa dei Campioni e un campionato mai da protagonista. Matthaeus segnava (11 gol) ma pensava soprattutto al Mondiale di Italia ’90 che poi avrebbe vinto con la Germania (che all’epoca si chiamava ancora Germania Ovest), mentre nel 1990-91 trascinò la squadra alla conquista della Coppa Uefa lasciando qualcosa per strada in campionato. Nella partita decisiva fu proprio lui a sbagliare un rigore contro la Sampdoria, che vinse a San Siro per 2-0 e volò verso il primo e unico scudetto della sua carriera. In quanto a volare, anche Lothar non scherzava. Appena poteva, anche con meno di 24 ore a disposizione, scappava verso Monaco di Baviera. “Il vero problema – diceva sempre – è che c’è quella curva di Bergamo che mi costringe a rallentare”. Per il resto, Milano-Monaco quasi completamente intorno ai 200 all’ora sulla sua Merceces, come bere un bicchier d’acqua. Cosa ci andasse a fare si poteva intuire, ma il gossip non andava di moda. E poi ufficialmente era ancora sposato con Sylvia.

Poi arrivò Orrico, ma soprattutto arrivò Lolita. L’allenatore toscano voleva rivoluzionare l’Inter. Ma già a fine luglio l’Inter giocò un’amichevole all’Arena di Milano contro il Mantova e si capì che qualcosa non andava, o meglio, qualcuno ebbe la fortuna di capirlo grazie a un aneddoto raccontato dal compianto Ernesto Bronzetti che all’epoca era il direttore sportivo del Mantova. Nella squadra lombarda giocava Vittorio Cozzella, bomber di categoria, che dopo la partita aspettò Lothar davanti allo spogliatoio per chiedergli una foto. Già che c’era, gli chiese come si trovasse con il nuovo allenatore Corrado Orrico e si sentì dare una risposta beffarda: “Tura tre tomeniche”. Dura tre domeniche. Chiaro, no? Orrico durò un po’ di più, un girone prima di essere sostituito da Luisito Suarez, un’Inter dimenticabile, ma intanto Matthaeus aveva iniziato a fare il pendolare con la Svizzera perché nel frattempo si era legato a Lolita Moreno, una showgirl svizzera che rappresentava una distrazione non da poco. Orrico poi avrebbe raccontato: “Se Matthaeus non fosse stato in luna di miele costante per tutto l’anno, avrei fatto grandi cose nell’Inter”. Può anche darsi, ma qualche dubbio è lecito a distanza di 30 anni.

Matthaeus se ne andò dall’Inter e tornò al Bayern, lo consideravano finito invece andò avanti altri 8 anni, un po’ da centrocampista e un po’ da libero, dove faceva meno fatica e dava il suo contributo. Altri 4 campionati vinti, una Champions League persa all’ultimo respiro contro il Manchester United. Poi mezza stagione in America, ai Metrostars. Il resto è puro passatempo. Ha provato a fare l’allenatore, ma nella sua prima avventura al Rapid Vienna è partito togliendo la fascia da capitano a Peter Schottel solo perché una volta gli aveva fatto un fallaccio. Esperienze non esaltanti in Serbia, in Ungheria, persino in Brasile e Argentina, ma alla fine la sua lingua tagliente lo rende più adatto a commentare partite in Tv che a spiegare tattiche a ragazzi che non sanno fare quasi niente di quello che lui ha saputo fare. Nel frattempo, la sua vita sentimentale è passata attraverso quattro matrimoni, cinque figli e quella sensazione di non essere mai arrivato a un punto finale. Nemmeno oggi, a 60 anni.

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