Monte Rosa Walser Trail, il racconto: fatica, pioggia, fulmini e una caduta ma alla fine è malinconia

"In questi anni siamo corsi così avanti che ora dobbiamo sostare per consentire alle nostre anime di raggiungerci"

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Le ultime due o tre centinaia di metri del Monte Rosa Walser Trail le percorro, come sempre in questi casi, lungo una sorta di... viale della "liberazione". All’altezza di Castel Savoia, che “sorveglia” dall’alto Gressoney-Saint-Jean, ho raggiunto Alberto. Lo affianco e rallento impercettibilmente, quanto basta per arrivare insieme al traguardo. Non è il caso di fare lo sbruffone. Sono provato e svuotato quanto lui. Forse di più. Non mi sono fatto mancare nulla, nemmeno il solito volo gambe all’aria. Scoprirò tra pochi minuti che Alberto di cognome fa Monticone ed è il direttore tecnico della nazionale di sci di velocità (quello che una volta era meglio conosciuto come KL, il “chilometro lanciato”), che ha tra i suoi elementi di punta Simone Origone, sei volte campione del mondo della specialità. Ma tra i tanti passi (a migliaia) che ho fatto in direzione del traguardo, adesso mi preme l'urgenza di farne uno nella direzione opposta: per tornare a poco meno di ventiquattr’ore fa.

Il tempo di raggiungere la Valle d’Aosta, sbrigare le solite formalità pregara alla Sport Haus di Gressoney-Saint-Jean, sistemarmi in hotel ed eccomi nella minuscola e caratteristica Obre Platz del paese. Alle diciannove scattano gli ultrarunners della gara principale: 114 chilometri avanti e indietro (anzi su e giù) tra la Valle del Lys e quella d’Ayas. Loro sono già pronti a lanciarsi, io partirò per la mia più abbordabile 50K solo domani mattina. Meglio fare le cose per gradi ... Certo, sogno ad occhi aperti di essere nella gabbia di partenza con loro magari già tra dodici mesi e intanto scruto i loro, di occhi. Sguardi tesi e concentrati, espressioni tirate oppure completamente serene. A tratti proprio felici. Sto già “scrivendo”, ma in fondo vorrei solo correre, chiedere un improbabile “upgrade” agli organizzatori e muovermi da qui e adesso, insieme a loro. Li vedo partire e dileguarsi dentro i boschi appena oltre le ultime case.

L'Hotel Jolanda Sport di Gressoney-La-Trinité non è un posto qualsiasi: si trova all’altezza degli ultimi trecento metri del percorso del mitico Trofeo Mezzalama di scialpinismo. Dopo cena li percorro in perfetta solitudine, fino al parco giochi dove, poco meno di tre mesi fa, Michele Boscacci, Robert Antonioli e Matteo Eydallin hanno portato a termine da vincitori la ventiduesima edizione della corsa. Magari per trarre una qualche forma di ispirazione. Ma ci vorrebbe ben altro …

La notte che segue dormo del solito... fragile sonno che non sfiora nemmeno la fase REM. Prima di coricarmi ho gettato uno sguardo fuori dalla finestra, verso il buio delle foreste intorno. Chissà cos’è quella luce lassù. Si muove, e non è l’unica. Ma certo, sono “loro”, in piena azione: tra qualche ora toccherà a noi ma non sarà la stessa cosa perché se Andrea Macchi e Lisa Borzani chiuderanno (da vincitori) la 114K all’ora di pranzo dell’indomani (lui) e a quella dell'aperitivo (lei) gli ultimi in grado di farlo non li posso proprio definire così (ultimi), perché raggiungeranno il red carpet alle nove del mattino di domenica: una sera, una notte (questa), un giorno intero, una nuova, seconda notte (io a quel punto sarò già di ritorno a casa ...) e poi ancora una nuova alba: trentotto ore. TRENTOTTO. E vuoi seriamente chiamarli “ultimi”?

Lasciamo il fondovalle e l’asfalto nel giro di qualche centinaio di metri, salutati da pochi residenti ed ancora meno turisti infreddoliti. Mah, saranno state le previsioni meteo poco propizie alle attività outdoor. Che contrasto con quanto testimoniato (da dentro) alla recente Valmalenco Ultradistance Trail di una settimana fa. Là tifo scatenato a bordo strada ma poi anche in quota, tra fuochi, applausi, incoraggiamento. A tutte le ore del giorno e della notte. Qui è tutta un’altra musica. Anzi un altro silenzio. Bisogna … cavarsela da soli, nessun aiuto esterno, ma siamo in tanti!

Il primo strappo violento (e prolungato) porta fino al Rifugio Sottile, appollaiato sul Colle Valdobbia, a 2488 metri di quota, sulla cresta di confine tra Valle d’Aosta e Piemonte. Lo troviamo chiuso, deserto. Ce lo avevano anticipato. Ugualmente, non capisco come sia possibile che qui non sia stato previsto un ristoro. Ma il Walser Trail è una prova in semi-autosufficienza idrica e alimentare. Quindi nulla di strano. 

Un lungo e non proprio comodo traverso a mezzacosta (con l'unico vero passaggio in cresta dell’intera gara) ci riporta in provincia di Aosta, attraverso il Passo di Valdobbiola (m. 2635). Giù dritti, a rotta di collo, facendo finalmente velocità fino a Rong dove troviamo finalmente un punto di “rifornimento” che (come era facilmente pronosticabile) viene preso d'assalto come il forno delle Grucce di Milano di manzoniana memoria.

Di nuovo rotta di verso nord, indugiando fin troppo a lungo nei boschi (e davanti ai caratteristici "stadel" dell'architettura walser) appena sopra il fondovalle fino alla decisa sterzata a destra che ci porta ad imboccare l’interminabile salita nel Vallone di Netscho, rotta sul Lago Gabiet, seconda ... asperità di giornata.

Siamo partiti alle otto del mattino con un timido sole, che nel corso della mattinata ha pure provato a farsi largo tra le nuvole ma ha poi perso la battaglia con la grossa perturbazione che si sta impadronendo delle Alpi (e non solo). Stiamo per valicare la bastionata di rocce che ancora nasconde alla nostra vista lo sbarramento sul lato sud del bacino quando i primi goccioloni di pioggia iniziano a cadere con ritmo incalzante. E quando (sarà la fatica) mi appare davanti una visione ben poco mistica: Frankenstein Junior. Rivedo la maschera grottesca ed impareggiabile di Marty Feldman e l’indimenticabile scambio di "lines" (battute) con Gene Wilder:

-“Che lavoro schifoso!”

-“Potrebbe andare peggio!”

-“E come?”

-“Potrebbe piovere …!”

Tuonata "cinematografica" e, appunto, attacca a piovere a dirotto. Aspetto ancora un po’ a tirare fuori dallo zainetto la giacca antivento. Voglio farlo solo al momento giusto: non un minuto prima ma nemmeno uno dopo. Forse vuol dire che sono ben presente a me stesso, quindi ancora lucido. Buon segno.

Eppure siamo mediamente fortunati. L'amica e collega Tatiana Bertera di cordadoppia.com, che sta correndo il MEHT (Monte Rosa East Himamayan Trail), gara se vogliamo “gemella” di questa sul versante piemontese del Rosa (Valle Anzasca) mi riferisce infatti di una violenta grandinata, sentieri trasformati in torrenti ed atleti in ipotermia e di prova infine sospesa per ragioni di sicurezza.  

Corriamo tra nebbia e tuoni lungo il lato est del Gabiet, in direzione dell’omonimo rifugio. La pioggia aumenta d'intensità ma il punto di ristoro (allestito sul piazzale antistante la costruzione) è coperto e riparato dal vento forte. C’è preoccupazione per uno di noi che è rimasto indietro e pare stia vomitando l’anima. Sta per partire qualcuno nella sua direzione ma poi eccolo che arriva. Farà ovviamente a meno della sua ... razione di bresaola e formaggio. Nessun problema: ne approfitto io ... Altro che biscotti e barrette del gusto indefinibile. BRESAOLA E FORMAGGIO. Ma qui c'è aria di casa! Faccio il pieno e riparto felice come una pasqua. Mica solo per i viveri: ci hanno appena detto che – causa maltempo – il passaggio sul doppio strappo finale del Col Ranzola è stato eliminato, riducendo il percorso di una decina di chilometri. Ora, io sono venuto qui tra le montagne dei Walser consapevole (e più che disponibile) ad “ammazzarmi” di chilometri ma, con tutto quello che viene giù dal cielo, mi sta benissimo anche così. Ed anche a tutti gli altri.

Superata la zona un po’ inaridita e desolata degli impianti sciistici, “indecisa” tra salite e discese, imbocchiamo finalmente un sentiero più tecnico, appagante e “convinto” della sua missione: portarci giù, possibilmente presto, speriamo integri. La concentrazione è quella giusta, non sentiamo più nemmeno la pioggia o il freddo. Piacere di correre. Euforia, a tratti. A richiamarmi  … alla realtà è la scarica potente di un fulmine che tocca terra forse una ventina di metri dietro di me e fa saltare dalla paura la ragazza che corre alle mie spalle e che (ma guarda un po’), smaltito il pre-shock, mi salta davanti a velocità doppia …

Raggiungiamo di nuovo il fondovalle all’altezza di Staffal, ma è solo un … diversivo, perché si torna subito ad inerpicarsi sull’altro versante, in direzione del balcone panoramico di Sant’Anna. Per come la vedo io (o meglio, per come le mie gambe “leggono” il terreno), questa è la parte più noiosa dell’intero itinerario: una lunga serie di tornanti su strada sterrata larga e ghiaiosa, sotto la pioggia.

Doppiato il “promontorio” di Sant’Anna però si torna a … ragionare. Di nuovo sentierino single track. Fango a volontà. Più che la tecnica è la forza di gravità a proiettarci verso Gressoney. Ma lo stile è decente (tra il sei e il sette, dai). In pieno downhill noto con la coda dell’occhio un tizio in giacca gialla che mi ha messo nel mirino. Decido di animare un po' la sfida, monto un set nuovo di zecca di "ultrasoft" e riesco a staccarlo di nuovo, fino a quando non lo sento più. Beh, mica male, oggi! Poco importa che mi raggiunga poco più avanti, sulla mulattiera in piano nel bosco, per poi rapidamente prendere il largo.

Siamo ormai alle porte di Gressoney-La-Trinité (ah, laggiù c’è il mio hotel … che sogno un bel bagno caldo …). Mi sorprendo a cercare e ad identificare, sull’altro riva di un Lys percorso da una corrente impetuosa e ruggente, il pratone sul quale, poco più di quarant’anni fa, sorgevano le tende del “mio” campeggio con l’oratorio di Brugherio. Sarà meglio non pensarci e guardare avanti. Lo faccio, ma non quanto dovrei.

Nell’attraversamento delle vie del paesino infatti un cambio di pavimentazione tra asfalto poroso e selciato lucido (e scivolosissimo causa pioggia) mi tende una “bella” trappola e faccio un tremendo volo in avanti (stile Holiday On Ice), atterrando sulla caviglia sinistra: l’unica sana che mi era rimasta dopo avere maltrattato quella destra un mese e mezzo fa a Livigno. Nessuno in giro: rimango un attimo lì senza fiato. Poi mi rialzo cercando di capire come sia potuto succedere, ancora! Riprendo a camminare verso il vicino controllo di passaggio. Mi fermo o proseguo? In piedi mi reggo, camminare cammino. Correre, ce la posso ancora fare? Tentiamo! Al ristoro faccio finta di niente, non parlo con nessuno dell’ennesima scavigliata. “Giacca gialla”, già lì da qualche minuto, forse però nota che qualcosa non è più al suo posto (si tratta della mia caviglia, ovviamente) e mi offre un bicchiere di the bello caldo. 

Ristorato, quasi rinfrancato, decido di rimettermi in marcia, con circospezione, come sulle uova, provando a corricchiare. Sembra tenere. Mancano una decina di chilometri a destinazione. Mettiamo nel conto di perdere una posizione al chilometro. Ma si, possiamo starci dentro, io e le mie caviglie di cristallo. Questa volta le "scope" non mi avranno! Se poi stasera la sinistra si gonfierà come una pesca (inevitabile) e non potrò nemmeno infilare il piede nella scarpa … Beh ci pensiamo dopo.

Va meglio del previsto, a patto di non fare altri passi falsi. A partire dagli strappi nel bosco verso i caratteristici alpeggi di Alpenzù Piccolo e Alpenzù Grande con la caratteristica architettura Walser (già ammirata tra Rong e Gressoney-La-Trinité), splendidamente conservata.

Tornati a fondovalle all'altezza di Tschemenoal (Chemonal), all’orizzonte si profila la sagoma di Castel Savoia. È  ancora lontanuccio ma le sue torri indicano la via: come fari sulla scogliera. Mi supera e subito mi stacca Roberto. Non lo conosco ma la sua faccia non mi è nuova. Ah si, stamattina all’alba entrambi vagavamo nella penombra appena rischiarata dalle luci notturne di servizio tra la hall e la cucina dell’hotel, già pronti per fare colazione, molto prima dell’arrivo del personale … 

Poi, mentre ancora sto arrancando sul sentiero, le case di Gressoney-Saint-Jean ormai vicine, arriva immancabile la scomoda malinconia che precede la fine dell’avventura. Manca solo il finale ma quello lo avete già letto … all’inizio. A me (a proposito di malinconia) non resta che chiuderla qui, con l’inarrivabile Rutger Hauer, il replicante Roy Batty di “Blade Runner”.

“E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”.

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