ULTRARUNNING

Michele Graglia vince la massacrante Moab 240 Endurance Run tra i canyons e le montagne dello Utah  

Cresce a suon di prestazioni straordinarie negli USA la fama dell'ultrarunner italiano Michele Graglia, vincitore di una delle prove più difficili della specialità.

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Oops, I Did It Again…! Michele Graglia l’ha fatto ancora una volta: l’ultrarunner ligure con un passato da fotomodello tiene alta la bandiera tricolore nelle corse su lunghissima distanza vincendo negli Stati Uniti la Moab 240 Endurance Run, una delle prove più massacranti della specialità sul pianeta Terra: quasi quattrocento chilometri di lunghezza e novemila metri di dislivello in salita, più dell'Everest!

Lo avevamo incontrato alla metà di novembre del 2019, Michele Graglia, grazie ai buoni uffici di Dino Bonelli, fotogiornalista piemontese con base a Prato Nevoso e cittadinanza… un po’ in tutto il mondo. Faceva un po’ strano intervistarlo nei giardinetti del Centro di Produzione TV di Mediaset a Cologno Monzese. Una location “terra terra” per un campione che all’epoca - ancora Covid-free, ma non per molto - era reduce dalla sua ultima super (anzi, ultra) performance: la traversata del Deserto del Gobi, in Mongolia. Un’impresa portata a termine nell’arco di ventitré giorni - dal 20 settembre al 13 ottobre, proprio un anno fa - all’incredibile ritmo di un’ottantina di chilometri al giorno: quasi due maratone quotidiane! Ne erano usciti, da quel racconto, un servizio televisivo per il Magazine di Studio Aperto ed un lungo articolo-intervista per sportmediaset.it. E ci eravamo lasciati con il più classico degli “in bocca al lupo” per le rispettive attività (soprattutto le sue, viste il loro carattere estremo!) e l’invito da parte nostra a rivederci per il bis dell’intervista e dei servizi, all’indomani della prossima impresa. Quella che Michele ha portato a termine il secondo fine settimana di ottobre nella Moab 240 Endurance Run. La pandemia ha però rimandato tutto a tempi migliori. Per ora ve la raccontiamo noi, con il contributo delle note che ci ha mandato il nostro buon amico Bonelli e con le immagini (di Ashley Andersen e Billy Yang) che ci restituiscono senso e contorni della prova, ma soprattutto il valore della performance di Michele. 

Temperature torride di giorno, gelide alla notte. Stradine sterrate e sentieri di montagna. Passaggi ad alta quota, su vette oltre i tremila metri di quota, già imbiancate dalla neve. Dislivello totale da superare: 29.467 piedi. Facciamo subito la conversione: 8.981 metri, 133, più dell’Everest! Tutto questo - e molto altro ancora - è Moab 240, una ultramaratona... per difetto. Largamente per difetto, visto che “240” sta per le miglia in programma. Serve subito un’altra conversione in cifre a noi più familiari: 390 chilometri. TRECENTONOVANTA!

La “Moab” si corre nel deserto del sud-est dello Utah, con partenza ed arrivo ai 1227 metri sul livello del mare della cittadina di Moab, appunto (cinquemila abitanti, lambita dal Colorado River)sviluppandosi lungo un anello che porta i concorrenti prima verso sudovest e poi - superata la boa di metà gara - verso nordest e, in direzione del traguardo, in una regione magnificamente deserta e arida, contraddistinta da due catene montuose (Abajo Mountains e La Sal Mountains) e da due grandi parchi: Arches National Park e Canyonlands National Park. Duecento i super-atleti al via: “mascherati” (secondo protocollo, avete già capito quale) ma limitatamente alla partenza e poi al primo miglio di gara. Neanche così però, con la mascherina a coprirne il volto, i suoi colleghi hanno impiegato molto a capire quale tra loro fosse Michele Graglia. Dal passo, dal ritmo, dall'implacabile determinazione a fare la differenza. Mentre il campione del team La Sportiva correva, comodamente seduti davanti al pc noi abbiamo provato a dare un’occhiata al live tracking: Michele largamente in testa, un puntino minuscolo ed al tempo stesso... un "gigante" nel deserto, con un solo inseguitore alle sue calcagna (si fa per dire). Il resto della truppa? Staccatissimo! Così vicini tra di loro – e lontani dal “nostro”, i suoi rivali - da risultare indistinguibili l’uno dall’altro, se non zoomando esageratamente…!

 

Autore di un clamoroso "U-Turn" dal mondo dorato delle passerelle a quello... very, very dusty dell'ultrarunning, il 37enne ex-fotomodello di originario di Sanremo - come scrivevamo all’inizio - lo ha fatto un’altra volta. Il successo nello Utah fa infatti il paio con quello che Graglia aveva messo a segno nel 2018, vincendo la mitica (ed un po’ “mistica”, causa allucinazioni da sforzo estremo) Badwater 135 Ultra Marathon nella Death Valley californiana, con i suoi 217 chilometri di sviluppo e le sue temperature “impossibili”, da oltre cinquanta gradi centigradi. Non è stata certo una passeggiata, però. Non lo poteva essere per via delle sue caratteristiche instrinseche. Ed in fondo non lo è stata anche a causa della minaccia rappresentata dall’eroe di casa David Goggins, fortissimo ultrarunner e mental coach con un passato da Navy SEAL, le forze speciali della US Navy. Era lui il puntino che, nella nostra sbirciata al live tracking della “Moab”, inseguiva Michele a… rispettosa distanza.

Come spesso accade in questo tipo di prove estreme (e anche di quelle che lo sono un po’ meno…), il primo avversario di ogni atleta è però sé stesso, lo sono il proprio fisico, i propri pensieri, i fantasmi che a volte ci portiamo dentro. Partito con una strategia precisa, che prevedeva brevi soste ristoratrici ma non veri e propri fasi dedicate al sonno, Michele ha subito impresso un ritmo insostenibile per la concorrenza, mantenendolo tale per i “primi” duecentocinquanta chilometri (in pratica due terzi della distanza totale) a temperature superiori ai 35 gradi centigradi. Facendo selezione nonostante qualche problema di stomaco e, con il passare dei chilometri, qualche prevedibile calo di lucidità. Il freddo della seconda notte di gara (fino a cinque gradi sotto lo zero) e l’ultima, interminabile salita hanno poi impedito a Graglia di tentare l’assalto al record della gara. Che è comunque rimasto lungamente alla sua portata, fino ad una cinquantina di chilometri dall’arrivo quando l’infiammazione ad un tendine d’achille ha compromesso mobilità, efficacia della falcata e, di conseguenza, tempo finale sotto l’arco del traguardo, che Michele ha tagliato sessantuno ore, 43 minuti e 15 secondi dopo il via, con oltre un’ora e mezza di vantaggio su Goggins e molte ore prima del resto del gruppo. E, lo immaginiamo, con tanti pensieri nella testa. Magari anche quello di tornare per provare a battere il record. Non quello stabilito nel 2019 da Michael McKnight in 59 ore e mezza. Il primato assoluto della Moab appartiene infatti ad una donna: la  straordinaria 35enne Courtney Dauwalter - vincitrice l'anno scorso dell'UTMB Ultra Trail du Mont-Blanc - che nel 2017 ha battuto tutti (uomini compresi, appunto) nella prima edizione della prova, con il tempo di 57 ore e 55 minuti!

Per finire, ecco il commento di Michele alla sua gara ed alla più recente evoluzione dell'ultrarunning, su distanze sempre più... infinite!

"Si dice che ogni gara è unica, e questa non fa eccezione: è una gara come nessun'altra! Molto più che una competizione, è stato come vivere un'intera vita di emozioni compresse in poco più di due giorni estremamente intensi. La distanza è sbalorditiva - quasi 400 chilometri - ed è ciò che mi ha incuriosito fin da subito, quando ne ho sentito parlare per la prima volta nel 2017. Spingersi oltre certi confini sia fisici che mentali è innanzitutto un viaggio alla scoperta di sé stessi: poterlo fare mentre ci si immerge completamente nella splendida cornice dello Utah meridionale è una benedizione! Devo ammettere che questa Moab240 è stata, di gran lunga, l'esperienza più intensa della mia vita. Tutte quelle ore di emozioni trascorse a scalciare sabbia e rocce rosse mentre guardavo il sole sorgere e tramontare all'orizzonte per tre giorni di fila. Senza dormire. Senza riposare. Solo correre, così a lungo come non mi era mai successo prima. Le altre ultra marathon che avevo corso in precedenza erano lunghe la metà, mentre durante le traversate nel deserto ero supportato dal mio team, che mi aspettava ad intervalli regolari e mi diceva quanto riposare, cosa mangiare. In questo vortice di alti e bassi che è stato la Moab 240, a dettare il ritmo c’erano invece il caldo torrido del giorno e il gelo della notte. Devo ancora smaltire l’adrenalina, elaborare tutta l'euforia seguita da momenti di completa stanchezza e disperazione che ho vissuto là fuori. Mi sento però di aver raggiunto quello che i primi ultra maratoneti delle prova da cento miglia inseguivano una decina di anni fa o più: un nuovo limite. Una prova del nostro potenziale. E ora che le competizioni sulle cento miglia stanno diventando così popolari, un nuovo tipo di ultrarunner cerca il prossimo obiettivo da raggiungere e l'ascesa delle “200-milers”si sta palesando come una vera e propria testimonianza dello spirito ultra. Scoprire da soli fin dove possiamo arrivare. In un solo colpo. Questa è la vera essenza di una ultra. Questa è una vera avventura!"

 

 

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