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L'eredità di Binotto: una Ferrari da primo posto, una missione da affrontare diversamente

L'avventura dell'ormai ex Team Principal a Maranello era iniziata ventotto anni fa

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L'eredità di Binotto: una Ferrari da primo posto, una missione da affrontare diversamente - foto 1
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Quattro anni sull'altalena per un rilancio che c'è stato ma al quale è mancato il coronamento della missione titolo. Il bilancio finale dell’esperienza di Mattia Binotto nelle vesti di Team Principal della Scuderia è fatto appunto di alti e bassi ma soprattutto di un rapporto con il presidente John Elkann che non è mai decollato e che si è progressivamente spento, con l’accelerazione imposta dal trend del Mondiale terminato lo scorso 20 novembre ad Abu Dhabi con il secondo posto di Charles Leclerc nel Mondiale piloti ed il terzo in quello Costruttori, a fronte però di un binomio Verstappen-Red Bull dominante e più pronto a prendere il posto della Mercedes al top della Formula Uno.

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Subentrato a Maurizio Arrivabene il 7 gennaio, il 53enne ingegnere e manager italoelvetico era entrato in Ferrari come motorista della squadra test nel 1995, l'anno prima dell'avvio (tutto in salita) dell'epopea di Michael Schumacher al volante della Ferrari. Di fatto, quindi vivendo l'esperienza di quella stagione magica, al cui interno Mattia aveva progressivamente assunto responsabilità sempre più alte ed a vasto raggio. Ingegnere dei motori da gara nel 2004, tre anni più tardi capo ingegnere, corse e montaggio e nel 2009 responsabile delle operazioni motore e KERS insieme a Paolo Martinelli. In seguito vicedirettore motore ed elettronica con Luca Marmorini e infine direttore del reparto power unit nel 2014, per volontà del presidente Sergio Marchionne. Fino alla nomina a direttore tecnico in sostituzione di James Allison (che sarebbe andato a mietere allori alla Mercedes) ed a quella a Team Principal poco meno di quattro anni fa.

Ecco, forse è stato proprio il passaggio mai completato da ingegnere motorista a Team Principal si è rivelato il punto debole di Binotto, come la stagione appena terminata - con una Ferrari in lotta per il titolo - ha mostrato compiutamente. Dopo aver contribuito - con peso come abbiamo visto sempre maggiore - ai successi di Schumacher ed a quelli di Raikkonen, Massa e Vettel (fino ai piloti di oggi) nelle sue responsabilità di ingegnere motorista, Binotto ha evidentemente pagato capacità non altrettanto eccelse dal punto di vista manageriale e gestionale ad ancor più alto livello. Questo è quello che - al di là di giudizi ed opinioni per forza di cose parziali - sanciscono ufficialmente le dimissioni odierne, o più precisamente del prossimo 31 dicembre. Scadenza che presuppone un congelamento dell'annuncio del nuovo Team Principal (non della sua scelta, ovviamente) all'alba di un nuovo anno che a questo punto segna anche il passaggio ad una filosofia diversa (ruoli separati tra Team Principal e Direttore Tecnico, non può essere altrimenti) ma l'identica missione: quella del titolo iridato, da inseguire con una monoposto comunque ereditata dalla precedente gestione.

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All'approdo di Binotto sul ponte di comando, la Ferrari veniva da due stagioni consecutive concluse al secondo posto del Mondiale da Sebastian Vettel, traguardo (parziale) che la gestione terminata con il comunicato ufficiale di martedì 29 novembre è riuscita a replicare solo nel 2022 con Leclerc, al capolinea di un quadriennio iniziato con tre vittorie consecutive tra la fine di agosto ed il mese di settembre (Leclerc a Spa-Francorchamps e Monza, lo stesso Vettel a Singapore) grazie al cosiddetto "supermotore" al quale la Ferrari avrebbe però dovuto rinunciare dopo l'accordo privato con la FIA. Completamente da dimenticare il mediocre 2020, una delle stagioni più opache in assoluto nella storia delle Rosse, con tre sole apparizioni sul podio (due per il monegasco, una per il tedesco) e mai sul gradino più alto. Il ritorno alla vittoria non si sarebbe materializzato nemmeno nel 2021, con lo spagnolo Sainz a prendere il posto del quattro volte iridato Vettel. Quattro volte sul podio il nuovo arrivato, una sola Leclerc.

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Premesse non particolarmente esaltanti per un 2022 (da grandi novità regolamentari) invece inaspettatamente iniziato con una dimostrazione di forza (la doppietta Leclerc-Sainz in Bahrain), seguita nell'arco dei primi quattro GP da due altre affermazioni del monegasco, per una candidatura che a quale punto stava però già facendo i conti con il ritorno in carreggiata di Max Verstappen e della Red Bull. Un'ascesa prepotente alla quale l'ultima Ferrari "targata" Binotto avrebbe opposto la ormai tardiva alzata di scudi d'inizio estate, con i successi back-to-back di Sainz e Leclerc in Inghilterra ed in Austria.Troppo tardi appunto, ma soprattutto troppi errori in pista e nella situation room di Maranello, strategie sembrate ai più incomprensibili, che difatti raramente hanno pagato e che hanno penalizzato soprattutto il monegasco dal rendimento tanto elevato quanto altalenante. Passaggi a vuoto che hanno sostanzialmente impedito ai piloti di mettere a frutto l'elevato potenziale della F1-75, la Ferrari più competitiva e vincente del quadriennio Binotto, fino al suo scontato epilogo, che si è trascinato per due settimane: dalle prime indiscrezioni (con smentita ufficiale) alle effettive dimissioni, o meglio alla loro ufficializzazione).

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