F1, sono 44 i piloti morti in pista

Prima di Bianchi anche Gilles Villeneuve, Paletti, de Angelis e l'immenso Senna

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Con la morte di Jules Bianchi sale a quarantaquattro il numero dei piloti che hanno perso la vita al volante di una monoposto di Formula Uno a partire dal 1950, anno d'inizio del Mondiale. Trentadue di loro in un weekend di gara, dodici invece nel corso di test privati o di gare non valide per il Campionato del Mondo. Una statistica che tiene conto anche degli incidenti avvenuti nelle undici edizioni della 500 Miglia di Indianapolis valide per il Mondiale tra il 1950 ed il 1960. L'ultima vittima prima di Bianchi era stato naturalmente Ayrton Senna la cui scomparsa, vent'anni fa nel tragico primo maggio di Imola, aveva seguito di sole ventiquattro ore quella di Roland Ratzenberger. Il campione più amato subito dopo l'ultimo arrivato.

Due estremi dello schieramento di partenza, la stessa sorte. Un tragico testacoda del destino. Rarissimo ma purtroppo non unico nella storia della Formula Uno, visto che, dodici anni prima, a poco più di un mese di distanza l'uno dall'altro se ne erano andati Gilles Villeneuve, il campione della Ferrari, e Riccardo Paletti, in pratica al debutto nel Mondiale. Sabato 8 maggio 1982 il canadese, nel corso delle qualifiche del Gran Premio del Belgio a Zolder. Domenica 13 giugno invece, al via del Gran Premio del Canada a Montreal il pilota della Osella. Milanese per nascita, Paletti, come milanese d'origine era la famiglia di Bianchi. Tra il 1982 ed il 1994 avrebbe perso la vita anche Elio De Angelis, volato fuori pista al volante della sua Brabham durante una sessione di test al Paul Ricard: era il 15 maggio del 1986. E nel silenzio di una giornata d'inizio agosto del 1980 ad Hockenheim finì anche la vita di Patrick Depailler che stava collaudando la sua Alfa Romeo in vista del Gran Premio di Germania. Due anni prima, al via del Gran Premio d'Italia, il tragico rogo della Lotus di Ronnie Peterson a Monza. Ed anche se è difficile parlare di "normali" incidenti di gara, alcuni avvenimenti luttuosi in Formula Uno anche a molti anni di distanza continuano ad apparire più assurdi di altri, quando non addirittura evitabili. Quello di Bianchi naturalmente, ma non solo. Basti pensare alla tragica fine del gallese Tom Pryce che nel Gran Premio del Sudafrica del 1977 investì ed uccise con la sua Shadow un commissario di pista e venne a sua volta colpito alla testa ed ucciso dall'estintore che il commissario stesso teneva tra le mani. Oppure a quella del suo connazionale Roger Williamson che, quattro anni prima in Olanda (il 29 luglio del 1973), al secondo gran premio in Formula Uno, restò intrappolato sotto la sua March che andò a fuoco. Williamson non ebbe scampo, sia per il ritardo e l'inadeguatezza dei soccorsi, sia per il disinteresse dei suoi colleghi, con l'eccezione eroica di David Purley che tentò a lungo di rovesciare la March. Non sarebbe stata l'unica tragedia del 1973: poco più di due mesi dopo (il 6 ottobre) sarebbe scomparso durante nel corso delle prove ufficiali del Gran Premio degli Stati Uniti Francois Cevert, uno degli astri nascenti della Formula Uno nonchè fedele compagno di squadra di Jackie Stewart che rinunciò a correre, il giorno dopo, quello che sarebbe stato in ogni caso il suo centesimo ed ultimo Gran Premio. Per una tragica coincidenza il 6 ottobre del 1974, esattamente un anno dopo Cevert, ancora a Watkins Glen (questa volta però in gara) rimase vittima di un incidente mortale Helmuth Koinigg, giovane promessa austriaca. La sua Surtees si infilò sotto un guard rail e Koinigg rimase decapitato. Due anni più tardi a Zeltweg lo statunitense Mark Donohue non sopravvisse allo schianto della sua March (schierata dal Team Penske), causato dallo scoppio di uno pneumatico. Ennesimo incidente mortale di un decennio tragico per la Formula Uno, che era iniziato proprio nel 1970 con la tragica estate aperta il 21 giugno dalla morte del britannico Piers Courage nel rogo di Zandvoort (come Williamson tre anni più tardi) e chiusa sabato 5 settembre con la scomparsa, nelle prove ufficiali del Gran premio d'Italia a Monza, dell'austriaco Jochen Rindt, che si trovava al comando del Mondiale. Rindt non venne raggiunto in classifica negli ultimi tre gran premi ed a fine stagione diventò il primo ed unico campione del mondo alla memoria.

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