ADDIO O REI

Pelé, il Re del calcio che distribuiva gioia

Amato da tutti, odiato da nessuno, nemmeno dagli avversari battuti e mai umiliati

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Pelé, il Re del calcio che distribuiva gioia - foto 1
© afp

Ci sono quelli che sono nati per vincere, contro tutto e contro tutti. Fregandosene di piacere agli altri e dei cadaveri su cui camminano. Ci sono quelli che sono nati per farsi ammirare perché la natura li ha fatti belli da vedere e belli da invidiare. E poi c’è Pelé, uno che avrebbe dovuto vincere sempre per decreto, in omaggio alla bellezza che diffondeva nel mondo. Un decreto come quello che lo bloccò nel suo Paese fino a quando le gambe e la testa gli hanno consentito di distribuire gioia. Se non fosse intervenuta la legge dello Stato ci avrebbe pensato quella del denaro. Moratti e Agnelli lo avrebbero reso ricco da far paura, per un paio di generazioni, lo avrebbero aiutato a passare una maturità agiata senza dover correre di qua e di là per il mondo a stringere mani e mescere sorrisi per accontentare gli sponsor.

Vittorie ne ha collezionate, ma sono più le botte che ha preso. Fermarlo con mezzi leciti era un’utopia, bisognava tendergli agguati, sorprenderlo con azioni di squadrismo. uno contro uno significava che l’altro veniva ridicolizzato, uno contro due era una passeggiata per lui, uno contro tre si cominciava a ragionare ma tanto vinceva lui. Ma poteva capitare anche di trovarselo di fronte con trentotto di febbre, come avvenne a Giuanin Trapattoni in un’amichevole Italia-Brasile in cui gli fece toccare poche palle, ma solo perché O Rei era entrato in campo bombardato di antibiotici per salvare l’ingaggio che era stato pagato per la sua esibizione in quella partita. Il Santos o il Brasile senza Pelé erano scatole da scarpe senza le scarpe dentro.

Ma poi, quanti gol avrà fatto? Tutti d’accordo che sono stati più di mille, con tanto di filmato che racconta il millesimo su rigore al Maracanà. Ma le statistiche di quei tempi e di quelle latitudini sono attendibili fino a un certo punto. Ognuno ha le sue, quasi tutti contano anche tutti quelli delle amichevoli, che ai tempi d’oro venivano giocate a cottimo per consentire al Santos di pagargli uno stipendio concorrenziale. Si giocava al pomeriggio contro il Genoa, si saltava su un aereo e poi senza passare nemmeno dall’albergo a fare pipì ci si ritrovava nello stadio dello Sheffield United, pronti per un’altra esibizione. Un tempo da una parte, un tempo dall’altra. Al resto pensavano le comparse, che evitavano figuracce e che consentivano la sopravvivenza di quell’inverosimile baraccone. Si dice che sia stato documentato in video solamente il trenta per cento dei gol realizzati da Pelé. Forse è una stima approssimata per difetto. E comunque quel trenta per cento è sufficiente per rendersi conto della provenienza divina di quelle giocate.

Tre Mondiali in una vita li può vincere solo un Fenomeno. Tre Mondiali di tre ere geologiche diverse, il primo giocato da minorenne mingherlino che si faceva beffe dei giganti svedesi, il secondo da giocatore affermato che però incise poco o niente per le troppe scarpate che gli avevano stampato addosso gli avversari, il terzo da dio del calcio che troneggiava in mezzo a una squadra in cui persino i difensori centrali avevano la tecnica necessaria per giocare con il numero dieci. Ma quel numero era suo per diritto divino. Non c’è nemmeno bisogno di ritirarlo, perché per sempre la maglia numero dieci del Brasile sarà la sua, sarà un marchio di fabbrica registrato.

Papà Dondinho voleva un figlio maschio che diventasse un calciatore un po’ più bravo di lui, che segnasse per qualche soldo e non per un piatto di fagioli. Mamma Celeste invece pregava per veder nascere una femmina, stufa di preoccuparsi per i calci sugli stinchi che prendeva il marito sui campi di periferia. Gli dei del calcio avevano deciso però che in quella casa di Tres Coraçoes, che molti vogliono immaginare simile alla grotta di Betlemme, nascesse un nuovo Messia che spaccasse a metà la storia di quello che qualcuno definisce uno sport, qualcuno un gioco, ma che in realtà è la religione laica più praticata nella storia dell’umanità.

Dicevano che fosse miope, ma nessun oculista è mai riuscito ad accertare che fosse la verità. Dicevano che fosse inimitabile e questo è vero. È un dogma. Di sicuro è stato il giocatore più completo di tutti i tempi, la perfezione nelle proporzioni fisiche, nell’eleganza dei movimenti e nel repertorio tecnico. La sua storia è fatta di gol segnati in tutte le maniere, di destro, di sinistro, di testa, con qualunque parte del corpo lecita. Spettacolo sempre e comunque, ma uno spettacolo alla fine del quale era impossibile o quasi che non uscisse vincitore. Gli capitò anche di andare in porta tre volte in tutta la sua carriera, quando le sostituzioni erano finite. Tre pezzi di partita in cui prese zero gol, con parate decisive. Poteva fare tutto, ma proprio tutto quello che fa parte di questo gioco meraviglioso. È nato per regalare al mondo tanta gioia, per essere amato da tutti e odiato da nessuno, nemmeno dagli avversari battuti e mai umiliati. Ed è un motivo in più perché dovesse vincere sempre, che fosse per merito sportivo o per decreto. Divino ovviamente.

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