L'INTERVISTA

Arrigo Sacchi a tutto campo: "Sarri, Icardi ti complica la vita"

L'ex tecnico del Milan: "Tifo spudoratamente per Giampaolo. Io quando sono arrivato ero definito un 'signor nessuno' ma poi"…

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La rivoluzione del calcio italiano. La forza delle idee che si fa strada nel Paese del tatticismo. In poche parole: sarà una Serie A fantastica quella che ci apprestiamo a vivere. Pensieri e parole di Arrigo Sacchi, maestro indiscusso del calcio mondiale e profeta del calcio offensivo, quaranta minuti di chiacchierata in esclusiva a ruota libera, a tu per tu con la sua saggezza. Con molte sorprese e qualche dubbio.

Sacchi, 4 delle prime 7 squadre dello scorso campionato hanno cambiato allenatore. C’è un significato in tutto questo? 
“C’è semplicemente voglia di cambiare. Nel calcio spesso ci si brucia molto in fretta”.

D’accordo, ma secondo lei in che direzione si va? 
“Dal 1955, da quando il catenaccio è entrato nel calcio italiano, siamo sempre andati alla ricerca dei tatticismi, delle scorciatoie per arrivare al risultato. Noi abbiamo sempre avuto tanti bravi tattici, ma pochi strateghi”. 

E adesso che succede? 
“Succede che almeno otto o nove squadre sono state affidate a degli ottimi strateghi. Mi auguro che questo sia avvenuto per conoscenze e per certezze, non per  moda. Perché se fosse per moda, vorrebbe dire che non siamo ancora pronti per una vera svolta”. 

Se invece si trattasse di conoscenze e certezze, sarebbe un bel passo in avanti.
“Enorme. Un cambiamento che esce dalla cultura e dalla tradizione italiane. Se davvero questa tendenza verrà confermata, il calcio dimostrerebbe di essere un passo avanti rispetto a tutto il resto del Paese”. 

Il grande ritorno delle idee… 
“E dei valori. Le basi del calcio non possono essere la furbizia o l’attesa degli errori altrui, o la semplice gestione delle partite. Il calcio ha bisogno di maestri come il cinema ha bisogno di sceneggiatori e registi. Bertolt Brecht diceva che senza copione si va solo nella direzione dell’improvvisazione e del pressapochismo. Anche gli attori più bravi hanno bisogno di essere guidati. Ecco perché dico che stanno tornando i valori: oltre alle idee, anche il coraggio. Che messi insieme generano bellezza”. 

L’arrivo di Sarri sulla panchina della Juventus va in questa direzione? 
“La Juventus in tutti questi anni è stata ed è la leader indiscussa del calcio italiano. Nella sua storia si è affidata spesso a dei buoni tattici, più raramente a degli strateghi. Questa filosofia le ha consentito comunque di vincere molto. Almeno in Italia, Paese in cui il calcio è prettamente difensivo. Ma a livello internazionale non è andata nello stesso modo. E noi sappiano benissimo quando sia importante per la Juventus primeggiare a livello internazionale, sia per motivi di prestigio sia per ragioni più banalmente economiche”.

Si può parlare di una piccola rivoluzione in casa Juve dunque? 
“Non piccola. Una vera e propria rivoluzione, voluta da un presidente che sta dimostrando coraggio e personalità. Con questa scelta, la Juve ha dato una vera ed propria spallata al vecchio modo di intendere il calcio. Speriamo che questa spallata si porti dietro tutto il calcio italiano. Sarebbe bello che finalmente passasse questo concetto: la vittoria senza merito non vale niente”. 

Questo significa che con Sarri la Juventus potrà davvero giocarsela con più possibilità anche in Champions League? 
“Non dipende solo da lui, ma anche dalla competenza e dalla pazienza del club”.

Lei ha lanciato un interrogativo tattico molto interessante: ma davvero a questa Juve serve uno come Icardi? 
“Il ragionamento è molto semplice. Icardi è uno specialista del suo ruolo, ma in un concetto di calcio totale fatica. E poi andrebbe a occupare una zona di campo che generalmente viene lasciata libera per gli inserimenti di Cristiano Ronaldo”. 

Non pensa invece che Icardi nelle mani di Sarri potrebbe imparare qualcosa e decollare definitivamente? 
“Sarri è un allenatore dotato di grandissime capacità didattiche, però in tutta sincerità mi chiedo perché dovrebbe complicarsi la vita”. 

Come si immagina la Juve di Sarri? Con il 4-3-3 come il Napoli o con il 4-3-2-1 come l’Empoli? 
“Il sistema di gioco più efficace è quello che esalta la qualità dei giocatori e li mette nelle condizioni di rendere al meglio. In pratica, quello che viene memorizzato più facilmente dal gruppo che si ha a diposizione. Sarri lo sa bene”. 

Spese folli per i difensori centrali: è una moda, è la voglia di curare il meno possibile la fase difensiva per affidarsi alla forza dei singoli o che altro? 
“Se si lavora su un calcio offensivo, bisogna sempre pensare di avere un giocatore in più degli altri nella zona in cui serve. Giocatori come De Ligt costano perché possono trovarsi uno contro uno senza paura. Spendere per un difensore bravo non vuol dire essere difensivisti, ma intendere il calcio come va inteso, uno sport di squadra offensivo”.

Chi ha costruito la difesa più forte? 
“Leggo molti dibattiti in giro sull’argomento. Ci si chiede se sia meglio la coppia Manolas-Koulibaly oppure il terzetto De Vrij-Skriniar-Godin o ancora la difesa juventina con De Ligt. Io rispondo in questo modo: l’anno prima che arrivassi al Milan, la difesa del Milan era formata da Tassotti, Bonetti, Baresi e Maldini. La mia difesa era formata da Tassotti, Filippo Galli o Costacurta, Baresi e Maldini. Che differenza c’era? Eppure l’anno prima avevano preso 24 gol e con me, in campo, solo 12. Nel calcio moderno devi avere un collettivo totale nella fase offensiva e difensiva, giocatori polivalenti uniti dal sottile filo del gioco. Quindi per favore non generalizziamo, non sezioniamo le squadre”. 

Lei lo dice da tanti anni. 
“In Italia trent’anni fa c’erano dei concetti che non tutti conoscevano, come quello di avere sempre undici giocatori in posizione attiva, in fase di possesso o di non possesso. Il calcio, non mi stancherò mai di ripeterlo, è sempre uno sport di squadra anche se qualcuno lo vuole ridurre a uno sport individuale. Van Basten mi diceva che con i miei concetti non riusciva a esprimersi, ma io gli ho dimostrato che invece in quel modo si esprimeva al massimo per novanta minuti. Gli olandesi non erano proprio dei ragazzini quando sono arrivati al Milan, eppure non avevano mai vinto una Coppa dei Campioni o un Pallone d’oro. Da lì in poi sì”. 

È questa la grande differenza tra le grandi squadre europee e quelle italiane? 
“Noi italiani siamo abituati a giocare come se fossimo sempre uno in meno e nessuno se ne accorge più. Un concetto che si è visto in maniera chiara la sera di Juventus-Ajax. Siamo talmente abituati a vedere gli altri in superiorità numerica che lo diamo quasi per scontato, e parlo anche di bravi commentatori che sono stati miei giocatori. Il calcio è emozione e se giochi con coraggio, generi queste emozioni. Invece il pessimismo è sempre disgregante”. 

In questo panorama di grandi novità in serie A, come vede l’arrivo di Antonio Conte all’Inter? 
“È un allenatore di livello internazionale, su questo non ci sono dubbi. Un uomo di grande sensibilità che ha una sua idea di gioco. Non è un caso se France Football l’ha inserito nella classifica dei più grandi allenatori di tutti i tempi”.

Cosa gli serve per fare una grande Inter? 
“Deve avere più fiducia in sé stesso”

E dal punto di vista delle scelte? 
“Faccio un discorso più in generale. Per costruire una grande squadra servono soprattutto due doti. La prima è la cultura cooperativa. Non ci devono mai essere accessi di personalismo all’interno di un gruppo. La seconda è lo stile, perché dà l’idea di chi sei e di come stai. Il nostro calcio in generale non ha mai avuto stile”. 

Passiamo a uno dei suoi pupilli, Carlo Ancelotti. L’ha visto cambiato in questi ultimi anni? 
“Carlo è una delle persone più intelligenti nel calcio e tra i più ricchi in tema di esperienza. Al prodotto finale ci arriva sempre, magari per altre strade però ci arriva. Quindi fa parte della categoria degli strateghi e tutti gli effetti”. 

Ancelotti a Napoli è l’uomo giusto al posto giusto? 
“È un uomo che sta bene dappertutto”. 

L’Atalanta in Champions League cosa significa per il calcio italiano? 
“Qualcosa di eccezionale e di estremamente positivo per il calcio italiano, soprattutto perché i meriti di questa impresa vanno suddivisi in maniera equa tra il lavoro dell’allenatore, la bravura dei giocatori e la solidità del club”. 

Non c’è il rischio che l’impegno europeo pesantissimo si ripercuota sull’Atalanta nel prossimo campionato? 
“L’augurio è ovviamente che i risultati siano ottimi, ma di sicuro il rischio che la Champions possa condizionare il campionato esiste”. 

C’è una ricetta per evitare il contraccolpo? 
“L’Atalanta non deve perdere la propria identità. Soprattutto non deve cadere nella tentazione di andare a cercare un top player. Le società di quella dimensione devono cercare di crearseli in casa, quei top player. Racconto sempre un episodio che mi è capitato all’inizio della carriera, nei dilettanti. Dissi a un mio dirigente che avevo bisogno un libero e lui mi rispose con una controdomanda: che numero daresti a questo libero? “Il 6”. Andò negli spogliatoi e uscì con la maglia numero 6: “Adesso mettici dentro un libero”. Era un modo per dire che non c’erano soldi e che dovevo fare io. E così fu. Iniziai a giocare con la difesa in linea senza libero. L’importante è che ci siano dei valori e che vengano rispettati, così come ognuno deve tenere presente le proprie possibilità”. 

Il Milan che punta su Giampaolo ricade in questo concetto? 
“Giampaolo fa parte di quegli otto-nove allenatori che io considero degli strateghi e che possono contribuire al miglioramento dei giocatori e al buon funzionamento di una squadra. Questa è la strada giusta e io faccio un tifo spudorato per gli allenatori come Giampaolo”. 

Forse si rivede un po’ in lui? 
“Quando arrivai al Milan, un giornale importante mi definì “un signor nessuno”. Probabilmente era così, però il calcio è uno sport che può consentire a un signor nessuno con dei valori di essere inserito nell’elenco dei dieci allenatori che hanno rivoluzionato il calcio e addirittura al terzo posto nella classifica degli allenatori di tutti i tempi da France Football”. 

Tutto grazie alla forza delle idee. 
“Nel mio primo anno milanista c’erano trentamila abbonati, l’anno successivo sessantamila. In piccolo, anche il mio Parma raddoppiò le cifre. Non sempre ho vinto, chiaro, ma lottavo per il vertice dopo aver concordato il premio salvezza. Qualcosa dovrà pure significare”. 

Fonseca ha delle idee che possono fare bene alla Roma? 
“Un altro allenatore che io metto nella lista degli strateghi e non in quella dei tattici. In Ucraina ha mostrato un calcio propositivo e interessante”. 

Che consiglio gli si può dare? 
“Quello di restare sé stesso. In passato gli allenatori stranieri che sono arrivati in Italia hanno finito per adattarsi alla nostra mentalità, penso a gente come Helenio Herrera o anche a Sven Goran Eriksson. Arrivati qui, non insegnavano più le stesse cose. Questo non deve succedere”. 

Che Serie A sogna? 
“Un campionato in cui scenda in campo l’idea di un calcio propositivo più che l’obiettivo di vincere a tutti i costi, un campionato in cui non si giudichi il risultato ma la maniera in cui è arrivato, in cui una vittoria per due a zero possa essere considerata negativa se non è arrivata attraverso il gioco. Un calcio più spagnolo che italiano”. 

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