Sacchi, 30 anni dal primo scudetto del suo Milan: "Fu un sogno, ci credevamo solo io e Berlusconi"

L'allenatore che ha fatto grande i rossoneri torna al 1987: "L'inizio fu difficile, ma poi la squadra si convinse..."

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Indimenticabile. Per il Milan, ma anche per lui. Arrigo Sacchi, l'uomo che ha cambiato il calcio, non può dimenticare l'emozione vissuta esattamente 30 anni. Era il 15 maggio 1988, e il Milan conquistava, sul campo del Como, il tricolore che l'avrebbe fatto diventare campione d'Italia prima di imporsi in Europa e nel Mondo. Tanti fuoriclasse in campo e un allenatore in panchina, Sacchi, che a distanza di tre decenni ricorda bene quale era il vero punto di forza di quella formidabile squadra: "La società veniva davanti a tutti noi. Senza il presidente Berlusconi nulla sarebbe stato possibile. Lui ce lo diceva sempre: si può far diventare possibile l'impossibile".

Davvero non credevate di poter vincere quello scudetto?
Era difficile immaginarlo. Berlusconi ci credeva, e anch'io mi convinsi in fretta. Ma la squadra non era pronta. Ricordo che Tassotti mi disse: "Mister, oltre al quarto passaggio non riusciamo a pensare. Va bene il primo, il secondo, ma poi si fa dura". Questa fase è durata un po', ma poi piano piano vedevo che i ragazzi si stavano convincendo che era possibile un altro calcio. E fu la svolta.

C'era diffidenza nei suoi confronti?
Più che altro c'era diffidenza sulla metodologia di lavoro. Sull'idea che il gioco di squadra dovesse essere totale, che ogni singolo campione - e io ne avevo tanti a disposizione - dovesse giocare 'con' i compagni, sempre, in tutte le fasi.

Quando capì che l'impossibile sarebbe potuto diventare possibile?
Ricordo bene l'inizio difficile, ricordo anche la partita persa a dicembre a tavolino con la Roma (il petardo che a San Siro colpì Tancredi, ndr). Però l'attenzione negli allenamenti cresceva, i calciatori cominciavano a venire sempre prima agli allenamenti e si fermavano più del previsto. C'era una voglia incredibile di migliorare partita dopo partita. Capii che si poteva vincere, anche contro Maradona, in assoluto il calciatore più forte e difficile da battere tra tutti quelli visti in questi decenni.

Come cambiò la squadra mese dopo mese?
Mi dava grande soddisfazione vedere crescere i sincronismi. Il presidente Berlusconi era stato chiaro: bisognava vincere, giocare bene, farsi apprezzare anche dai rivali. La missione era chiara, bisogna giocare da squadra per esaltare i singoli. Questo è un concetto che anche oggi non appartiene a quasi nessuno, in Italia. E non mi riferisco solo al calcio. E poi serviva, e serve, l'ossessione. Cesare Pavese diceva: "Non c'è arte senza ossessione".

Lei era un ossessivo?
Sì, è una caratteristica che mi ha accompagnato anche da prima del Milan, anche al Fusignano. E questo forse mi ha aiutato a non sentire mai la pressione per i salti in avanti.

Tutti hanno amato quel Milan, anche gli avversari.
Sì, ricordo ancora l'applauso del San Paolo quando l'1 maggio 1988 battemmo il Napoli nella sfida scudetto. Avevano Maradona, ma ci applaudirono. Vincere riesce a tanti, vincere così è molto più difficile.

Come si preparavano le partite da giocare contro Maradona?
L'obiettivo era fargli giocare 30 palloni a partita e non  70 o 100. E non si poteva rinunciare a un calciatore per stare dietro a Maradona tutta la partita, anche perché presumibilmente non sarebbe bastato. Giocavamo per limitarlo, di squadra.

Al di là della squadra, si può fare una citazione particolare per Van Basten?
Era l'intelligenza collettiva a fare la differenza. Poi Van Basten era meravigioso, certo. Riuscimmo a fare innamorare tutti grazie a questo. Pensi che il primo anno avevamo 30mila abbonati, il secondo 60mila. La vera vittoria era quella...

 

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