IL COMPLEANNO

Gli 80 anni di Rivera, la sua vita per il Milan e la capacità di stare sempre al centro di tutto

O con lui o contro di lui: non ci sono mai state vie di mezzo per questo signore che faceva assist con il contagiri e che non ha mai avuto paura di alzare la voce

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A 80 anni si possono fare ancora tanti progetti, perché quando uno è illuminato, lo è a 16 anni e anche quando quei 16 li ha moltiplicati per 5. Per Gianni Rivera è arrivato il giorno della cifra tonda che più tonda non si può, e nel giorno dell’ottantesimo compleanno ha ancora la forza per sognare: vorrebbe fare il CT dell’Italia, vorrebbe scrivere un po’ di storia ancora. Vorrebbe salvare il calcio.

Il tempo e lo spazio. Lo spazio e il tempo. Due concetti estremamente diversi tra loro, ma così compenetrati nei gesti di un calciatore che li ha utilizzati come se fossero un’appendice dei suoi arti. Uomo vitruviano del ventesimo secolo, al centro di tutte le leggi della fisica applicate al calcio, Gianni Rivera è stato l’unità di misura del talento calcistico. Non ha mai avuto bisogno di scattare o di saltare. Era sempre nel posto dove sarebbe arrivato il pallone, per la semplice ragione che il pallone desiderava andare dove stava lui. Perché da quei piedi veniva prodotta una bellezza che anche lo stesso pallone desiderava vivere per quei secondi di gloria.

I suoi passaggi rimarranno proverbiali per sempre, per tutta la storia del calcio. Un assist come quelli di Rivera lo poteva modellare solo Gianni Rivera, perché dal suo destro scaturivano traiettorie irripetibili, perfette nella distanza, nella velocità, nel numero di giri compiuti dal pallone, nello scopo finale. Avrebbe fatto segnare chiunque, ha trasformato Aldo Maldera in cannoniere quando era sempre stato un buon terzino sinistro, ha messo in mezzo palloni perfetti per essere buttati dentro, di testa o di piede. Si è regalato anche un titolo di capocannoniere, sia pure a pari merito, perché d’accordo la gloria della squadra e quella dei compagni, ma poi alla fine anche qualcosa per sé stesso doveva pure tenere, come quel gol decisivo nella mitica Italia-Germania 4-3 poco dopo avere regalato il pari ai tedeschi. Rivera non poteva passare alla storia per un goffo avvitamento su sé stesso sulla linea della propria porta. Doveva esserci un dopo. Doveva essere quel gol apparentemente facile. Solo apparentemente, perché in quel momento e in quell’occasione solamente un grande giocatore poteva segnare in quel modo.

Certo, comodo non è mai stato. O stavi con lui o stavi contro di lui. In mezzo a queste due categorie non ci stava nessuno, perché Rivera non poteva lasciare indifferenti. Lo si amava o lo si odiava, ma non necessariamente chi lo amava era milanista e chi lo odiava era antimilanista. E' sempre stato divisivo, punto. Era ed è divisivo perché non mandava e non manda mai a dire quello che pensa, chiunque sia il destinatario del pensiero. Capace di ribattere senza paura da ventenne alle critiche del più grande giornalista sportivo di tutti i tempi, Gianni Brera, capace di denunciare ad alta voce clamorosi errori arbitrali ai danni del suo Milan, accettando a testa alta una squalifica ritenuta esemplare. Ha pianificato di comprare il Milan quando ancora ci giocava, ha avuto il pudore di uscire dalla porta principale quando ha capito di non poter più contare nella stanza del comando, è entrato in politica e ha fatto la sua parte più di molti che della politica hanno fatto una professione sin dall’inizio.

Figlio di una sartina e di un operaio delle ferrovie, ha dettato la sua legge fin da quando era un adolescente mingherlino. Con quel fisico poteva anche pensare all’autodifesa, invece faceva il fenomeno con addosso la maglia grigia dell’Alessandria di tre taglie più grandi. Danzava in assoluta disinvoltura in mezzo a gente che aveva duecento partite in serie A, senza lasciarsi turbare dalla pioggia o dal sole, da mezzo metro di fango o da un prato curato come un tavolo da biliardo. Emozione zero, anche quando lo prese il Milan e lui disse che era arrivato a Milano per giocare, altrimenti non avrebbero speso tutti quei soldi per prenderlo. E aveva ragione anche in quel momento, perché era consapevole del suo immenso talento, aveva capito che con il pallone poteva fare quello che voleva. O meglio, per ribadire, era il pallone a voler fare a tutti i costi quello che Rivera voleva.

Quei sei minuti giocati, si fa per dire, nella finale del 1970 persa contro il Brasile, rappresentano un altro dei momenti fondamentali di questo giocatore. In quei giorni si cercò di farlo passare come l’unico elemento deficitario di una spedizione che per il resto era andata oltre le aspettative, con quella finale raggiunta e quel dualismo un po’ artificiale tra Rivera e Mazzola. Eppure era proprio difficile metterli insieme, non tanto per un problema tecnico ma soprattutto per la spiccatissima personalità dei due soggetti.

Quell’inizio di carriera con l’Alessandria è stato quasi un incidente di percorso, perché Rivera è stato il Milan e per venti lunghi anni il Milan è stato Rivera, con la maglia numero dieci cucita addosso come se fosse un tessuto epiteliale, con lo scudetto della stella come sublimazione finale di quel grande rapporto d’amore, con quel pomeriggio di San Siro che lo vide protagonista non con un pallone tra i piedi ma con un microfono in mano, magistrale nel convincere la sua gente a sgomberare la parte pericolante di San Siro. Sapeva che quella sarebbe stata l’ultima occasione per vincere uno scudetto con le scarpe bullonate ai piedi, i pantaloncini corti, la fascia da capitano al braccio. Se la giocò in quel modo, sapeva che poi sarebbe andata bene, sapeva che non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di utilizzare il cento per cento di quella sua straordinaria capacità di utilizzare lo spazio, il tempo e un pallone esattamente come voleva.

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