Wilkins, cervello e cuore Milan nella Serie A dei sogni

Protagonista in un "piccolo Diavolo", decisivo nella crescita dei futuri campioni

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In quella specie di scatola magica che era la Serie A degli Anni 80, uno andava allo stadio e ogni domenica, a prescindere dall'avversario, vedeva all'opera della gente che a pallone ci sapeva giocare sul serio. Maradona, Platini, Boniek, i mondiali dell'82, Cerezo, Falcao, Rummenigge, sinonimo di Juve, Inter, Roma, Napoli, fin qui troppo facile: poi, però, arrivava il Torino di Junior e Dossena, il Verona di Briegel ed Elkjaer, la Sampdoria di Souness, Francis, dei bimbi terribili Vialli e Mancini. Persino l'Avellino portava uno come Ramon Diaz, per dire.

E poi arrivava il Milan, nomone sempre grosso, tifoseria enorme, destini e casse un po' in ribasso sotto la gestione del ranchero veneto Giussy Farina. Eppure, la regola di cui sopra valeva anche per il Milan: una bella domenica, ecco a San Siro o da qualche parte il Milan di Wilkins e Hateley. Il secondo, "Attila", semisconosciuto pescato non si sa come nella Serie B inglese e assurto a personaggio copertina e rubacuori (rossoneri) con una serie di gol impressionanti, su tutti una indimenticata e decisiva legnata di testa all'Inter. Ma il primo, Ray Colin Wilkins, era il capitano del Manchester United e della Nazionale inglese e alla faccia di questo status quo, accettò di venire a giocare in un Diavolo non proprio di prima fila, però rinvigorito un poco dalla crescita della sua covata capitanata da Franco Baresi, dagli acquisti - non finanziati da Farina - di gente finalmente di livello come Ago Di Bartolomei, Pietropaolo Virdis, Giuliano Terraneo in porta. E poi, in panchina, Nils Liedholm, che probabilmente impiegò circa un paio di pomeriggi nel ritiro estivo di Vipiteno per capire che le chiavi della macchina andavano affidate a questo giocatore apparentemente piccolo e tracagnotto, ma in realtà assai tosto agonisticamente - come da cara vecchia scuola inglese - e soprattutto dai piedi molto educati: il suo soprannome, "Razor", rasoio, non nasceva da un talento barbieristico, ma da lanci lunghi, tesi, precisi, taglienti, appunto, che partivano soprattutto dal destro.

Cuore e qualità, insomma: per un pubblico milanista affamatissimo di cose belle bastava e avanzava per farne un idolo assoluto, e lui, anche fuori dal quadrato dei 90 minuti, seppe certamente farsi amare per la partecipazione, la professionalità assoluta, il feeling con la curva milanista - che salutava a inizio partita e dopo ogni gol con un "come on" accompagnato da entrambe le mani - e per prestazioni deluxe, domeniche in cui davvero prendeva per mano compagni giovani e meno giovani e si "Liedholmizzava" dando lezioni di centrocampo. Come in un Milan-Juventus 1985, 3-2 a sorpresa per i rossoneri contro la corazzata di Trapattoni: difesa e ringhi su Platini, regia, attacco con botta vincente deviata in rete dalle terga di Virdis. Voto della Gazza il giorno dopo: Wilkins, 8, e forse quella volta sono stati bassi. "Zio Ray" rimase per tre anni, l'ultima stagione un po' in calando. Ma era già nato il Nuovo Cinema Diavolo di Berlusconi, si cambiava, si alzava l'asticella, alle porte i magnifici olandesi a cui lasciare il posto. Tutto scritto molto prima dei canonici tempi di calciomercato, ma ciò non toglie che quella voglia, quella bella maniera di stare in campo e di viverlo, Wilkins la mantenne fino all'ultima partita a San Siro. Milan-Barcellona 1-0, i rossoneri vincono il Mundialito 1987, solo un aperitivino di quanto sarebbe successo da lì in poi: la curva chiama Ray, già con le valigie chiuse a casa, i compagni provano a portarlo in trionfo, lui si divincola giusto come un inglese che abbia assaggiato anche il rugby e scappa negli spogliatoi tenendosi una mano sulla faccia. Per tutti i milanisti di una certa età, lui è ancora là dentro, e fosse per lui ne uscirebbe per sfidare l'Inter, la Juve, chiunque, "come on boys", come sempre. Anche con lui, grazie a lui, c'era una volta il campionato più bello del mondo, e beato chi se l'è goduto.

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