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Kyle Hines: "Chacho? Una delle ragioni per cui sono venuto a Milano"

17 Giu 2025 - 12:00

In una lunghissima intervista concessa al sito ufficiale dell'Olimpia Milano, l'ex centro biancorosso (ora player development coach ai Brooklyn Nets) ha ripercorso l'intera esperienza lombarda (2020-2024): "Come sono arrivato dopo gli anni al CSKA? Ho parlato con Messina, con Chacho e mi hanno spiegato bene quanto fosse speciale questo posto, l’ambiente, quanto si trovassero bene. Coach Messina mi ha illustrato la sua visione per la squadra, quello che voleva fare, quello che voleva costruire. Ho pensato che sarebbe stato bello far parte di questo gruppo che avrebbero cambiato la direzione del club, la sua cultura, che avrebbero potuto gettare le fondamenta di quello che l’Olimpia Milano deve rappresentare. Guardando indietro penso che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Difficile andar via da Mosca? Molto. Era un posto che io e la mia famiglia consideravamo casa, in cui abbiamo vissuto per 7 anni. Ero il capitano, avevamo appena vinto l’EuroLeague. E poi eravamo in piena pandemia, c’era tanta incertezza su quello che sarebbe accaduto. È stata una scelta rischiosa: non sapevamo esattamente cosa avremmo trovato e cosa ci avrebbe riservato il futuro. Ma le conversazioni avute con Chacho, con Micov, con Messina mi tranquillizzarono.

Mai una chance in NBA? Quando ho provato, le cose erano molto differenti. C’era questa tendenza a pensare che per giocare da 3 o da 4 o da 5 dovevi avere una certa statura. Ero un giocatore poco tradizionale, giocavo ala forte o centro ma avevo la statura di un playmaker o quasi. Penso che questo abbia spaventato un po’ di gente. Quando sono andato alla Draft Combine sono stato impiegato in un ruolo in cui non avevo mai giocato prima.

Sono sorpreso che Antonello Riva (allora GM di Veroli) non se ne sia andato subito: ero stato veramente un disastro. Ma fortunatamente ci sono state persone come lui che hanno visto qualcosa, che hanno capito le mie qualità. Veroli è stata la chiave della mia carriera, la ragione della mia crescita di giocatore. Sono stato fortunato perché a Veroli ho trovato un gruppo di veterani allenati da colui che oggi è ritenuto uno dei migliori coach d’Europa, Andrea Trinchieri, all’inizio della sua carriera. Avevo come compagni giocatori che erano stati in Nazionale, che avevano giocato in Serie A, che mi hanno insegnato come essere un professionista, cosa servisse per avere successo a questo livello. E sono stato anche fortunato di giocare in una città piccola, dove non c’erano tante cose da fare.

Io un mentore? L’ho capito dopo essermi ritirato. Quando stai giocando sei concentrato sulle partite, prevale il tuo spirito competitivo, ma dopo il ritiro ho parlato tanto con giocatori in Europa, gente della NBA, ma anche agenti, tifosi: ho sentito tanti di loro dire che sono stato un esempio, per il cammino che ho intrapreso, per le cose che sono riuscito a fare. È stata una sensazione bella, è speciale sentirsi dire certe cose. Non avrei mai immaginato che qualcuno, guardando la mia carriera, avrebbe pensato che fosse un obiettivo emularla. Anche ad Abu Dhabi, alle ultime Final 4, dopo la vittoria del Fenerbahce, alcuni dei loro americani sono venuti a dirmi che avrebbero tentato di battere il mio record, di vincere altri trofei. Essere un esempio, un motivo per inseguire carriere sempre migliori, è toccante. Non ho mai cercato di piacere alle persone, non è uno status che ho tentato di affermare, sono sempre stato una persona che ha trattato le altre persone nel modo in cui volevo che loro trattassero me. Da quando mi sono ritirato ho parlato con tanta gente, arbitri, gente che non conoscevo o non conosceva me, gente che mi ha esternato la propria ammirazione, che ha confessato di avermi seguito, di conoscere il mio percorso. Tutto questo lo considero un onore, che ancora oggi mi stupisce.

La Milano 2020/21 era speciale? Eravamo tutti arrivati all’Olimpia Milano per un motivo. Tutti eravamo concentrati sul raggiungere un solo obiettivo e questo rende sempre le cose più facili. Guardandomi attorno, vedevo Delaney e Rodriguez, Datome e Micov: eravamo tutti lì per vincere dei titoli e riportare l’Olimpia dove non era stata per tanto tempo. La stoppata su Baldwin in gara5 col Bayern? Penso che fossimo avanti di 10-12 punti a meno di un minuto dalla fine. Pensavamo di avere la vittoria in pugno, ma con il Bayern Monaco tutte le partite si risolvevano alla fine e ad un certo punto è stata coma una valanga incontrollabile. Ma uscendo da quel time-out sapevo che avrei dovuto fare una giocata decisiva. Avevamo lavorato duramente per tutto l’anno per arrivare a quel punto. Sapevo che l’ultimo tiro l’avrebbe preso Wade Baldwin, perché so chi è, la sua personalità, il talento. Ho cercato di leggere e capire dove voleva andare. Grazie a Dio, non ho fatto fallo e sono riuscito a mettere le mani sulla palla e vincere la palla a due. Lo 0-4 con Bologna? Dopo quella stagione, perdere 4-0 la finale scudetto è stato ingiusto. Dentro di noi eravamo consci di essere la squadra migliore, ma non riuscimmo a giocare insieme, a trovare un modo per vincere le partite a prescindere dalle circostanze. Ma quell’esperienza spiacevole ci ha impartito una lezione: bisogna sempre continuare a giocare, sapere cosa serve fare per vincere un titolo soprattutto contro una squadra competitiva come Bologna. Qualcuno di noi giocava la finale per la prima volta e forse, forse, abbiamo ritenuto che la vittoria fosse scontata. Ma quello che personalmente ho imparato è che vincere non è scontato e per vincere devi – ogni giorno, ogni singola partita – fare quello che ti ha portato in quella posizione. Quella sconfitta pesante ci ha fatto diventare una squadra migliore, un gruppo di persone migliori.

Rapporto col Chacho? Tra me e lui c’è un legame particolare fin dal primo giorno, persino quando lui era al Real Madrid e io in altre squadre. C’era quel feeling, indescrivibile, che ci univa e ci portava a pensare che sarebbe stato bello giocare insieme. Quando c’è stata questa opportunità, al CSKA, ne abbiamo approfittato subito. Con lui è più facile giocare. Poi con il tempo abbiamo sviluppato questo rapporto anche fuori del campo. Le nostre famiglie fanno le stesse cose, i nostri figli hanno la stessa età. E per quanto sia incredibile come giocatore, lo sanno tutti, fuori del campo è addirittura migliore. Lui è stato una delle ragioni per cui sono venuto qui. Volevo ricostruire quel legame, visto il successo e quanto ci eravamo divertiti insieme in Russia.

La mia presenza nell'All-25 Team di Eurolega? Sto ancora vivendo un sogno, ogni tanto devo darmi un pizzicotto per capire se sto sognando. Qualche volta non sembra vero. Non ho mai avuto obiettivi individuali, non ho mai cercato dei premi, per me è sempre stata una questione di vincere le partite, di vincere campionati, trofei e riconoscere cosa servisse alla squadra per vincere. Sono grato di essere riconosciuto per quello che ho fatto, soprattutto lo sono diventato alla fine della mia carriera, ma ripeto in certi momenti mi chiedo ancora se tutto questo sia vero”.

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