ALPINISMO

Txikon: "La vetta è il quaranta per cento della scalata, la vera cumbre è il campo base"

Nostra intervista con il fuoriclasse spagnolo di etnia basca, per la prima volta in Italia dopo la sua recente impresa sull'ottava vetta del pianeta.

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© Instagram

Lo abbiamo "scaldato" e "acceso" in vista della serata oppure al contrario gli abbiamo scaricato le pile subito prima della stessa? Il dubbio ha breve durata. Alex Txikon infatti (di lui stiamo parlando) è alpinista e soprattutto uomo di saldissime certezze e il dilemma (dopo il fuoco di fila di interviste nel corso di un breve - solo nelle intenzioni - incontro riservato alla stampa), lo scioglie lui stesso nella successiva e brillante presentazione della sua prima salita invernale integrale al Manaslu, che con i suoi 8163 metri è l'ottavo dei quattordici ottomila in ordine di altezza. Realizzata nei primi giorni dell'anno (summit push venerdì 6 gennaio) insieme a sei alpinisti nepalesi dopo la rinuncia per un'improvvisa indisposizione di Simone Moro, la seconda "invernale" di Alex su un ottomila è il perno attorno al quale ruota la riuscitissima serata organizzata da DF Sport Specialist nel suo store di Brescia in collaborazione con Ferrino, brand del quale l’alpinista basco è come si dice "ambassador" ma soprattutto collaudatore sul campo. Anzi sui campi alti delle sue spedizioni sulle montagne più imponenti della Terra.

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© S. Gatti

Avevamo incontrato Alex Txikon la prima volta otto mesi fa a Valtournenche (vedi l’immagine qui sopra), in occasione di uno degli incontri della Settimana del Cervino, il festival multidisciplinare dedicato alla montagna ed in particolare alla Gran Becca organizzato da Hervé Barmasse. Rispetto allo scorso mese di luglio in Valle d'Aosta, quello che abbiamo ritrovato a Brescia venerdì 17 marzo è un Alex meno "massiccio" ma altrettanto integro, solo un po'... asciugato dalle fatiche invernali sul Manaslu.

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© Cristina Guarnaschelli

Con lui abbiamo ripercorso la spedizione che lo ha portato sulla vetta del suo secondo ottomila in prima invernale (dopo il Nanga Parbat di sette anni fa con il dream team completato da Simone Moro, Ali Sadpara e Tamara Lunger), per poi... arrampicarci con lui lungo tutta una serie di varianti tematiche che hanno finito per uscire tutte quante in vetta, o meglio al cuore di Alex, del suo modus vivendi. Itinerari lungo i quali l'alpinista basco ha accompagnato la platea della serata bresciana, affiancato sul palco da Luca Calvi, impeccabile nel restituire nella nostra lingua il suo racconto: con la massima accuratezza e fin dentro le sfumature più imperdibili. Niente di meno sarebbe bastato, per la terza serata dedicata da Txikon al Manaslu 2023 (e la prima in Italia) dal suo ritorno in Europa dall'Asia, poco più di due settimane fa.

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© DF Sport Specialist

SM: Alex, sono trascorsi due mesi e mezzo, che emozioni suscita dentro di te la prima invernale integrale sul Manaslu con i tuoi sei compagni di spedizione nepalesi?

AT: Guarda, è curioso: sono ovviamente soddisfatto, anzi molto soddisfatto ma al tempo stesso anche svuotato, ancora oggi, in un certo senso mi sento… bastonato! Mi spiego subito. Negli ultimi sette anni, dopo il Nanga Parbat, mi sono dedicato ad un solo progetto: il Manaslu. Quest’anno siamo finalmente riusciti a raggiungere la vetta ma non sento nessuna, davvero nessuna differenza con i tentativi degli anni precedenti sulla montagna! Una cosa stranissima. Questo mi ha fatto un volta di più capire che ciò che conta è la modalità dell’esperienza: partire da casa, arrivare al campo base e poi tornare di nuovo a casa. La cima è il quaranta per cento dell'opera, ma la vera "cumbre" è tornare giù, alla sicurezza del campo base, con gli amici. Da parte mia l'ambizione è pari a zero. Non sono in gara con nessuno, mi confronto solo con me stesso. Ciò che conta è tenere i piedi per terra. Non ho mai sentito pressione, piuttosto invece la tensione necessaria per fare bene il mio lavoro. In inverno sei tu e la montagna: svolgere bene il proprio lavoro significa sopravvivere. Certo, anche lo stile è importante e non vi rinuncio mai quando arrampico sulle Alpi o nei Pirenei, nel "giardino di casa" o comunque in una sorta di comfort zone. Nelle invernali himalayane - in materia sono piuttosto ferrato - lo stile resta importante ma è soprattutto funzionale alla ricerca della massima sicurezza. Stile sì, insomma, priorità però alla sopravvivenza!

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È difficile spiegare la successione degli eventi sul Manaslu. Un giorno dopo essere saliti in vetta siamo ridiscesi al campo base e abbiamo subito fatto rientro in elicottero a Kathmandu, dove eravamo già attesi per un conferenza stampa. È stata una cosa molto molto frenetica, da pazzi! Dal Nepal mi ero spostato in Pakistan per un trekking che aveva per obiettivo il recupero dei resti del mio collega australiano Matthew Eakin, che ha perso la vita la scorsa estate mentre scendeva dal K2. Eravamo una decina, tra amici e familiari. Purtroppo non siamo riusciti nella nostra missione. Ora però sono molto felice di essere qui a Brescia grazie all’invito di DF Sport Specialist e Ferrino. È solo la terza serata che tengo sul Manaslu 2023 e la prima in Italia.

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SM: Hai dedicato tanti anni al Manaslu, anche con Simone Moro…

AT: Sì, per Simone questo era il quinto tentativo. Se potessi cambiare qualcosa della nostra spedizione, vorrei che Simone fosse stato in vetta con noi, con tutta la squadra. Purtroppo ha avuto un problema di stomaco. Credo che abbiamo consumato qualcosa di guasto appena prima del tentativo di vetta. Siamo partiti la mattina del 4 gennaio e siamo andati a Campo Uno. All’inizio Simone stava molto bene, poi ha iniziato a vomitare, ha perso le forze. In pratica si è ripetuto quello che era successo a Tamara (Lunger, ndr) il 26 febbraio del 2016 a poca distanza dalla vetta del Nanga Parbat. Nel punto in cui ci trovavamo io al suo posto non sarei rientrato da solo, perché l’itinerario di rientro - per quanto non particolarmente difficile - era comunque insidioso per via dei crepacci. Simone però mi ha detto: no, tu vai avanti, sono in grado di tornare giù da solo.

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SM: Avete trovato condizioni diverse dagli ultimi anni e in particolare dall’anno scorso. Si spiega anche così il vostro successo?

AT: Non ci sono state grandi differenze. Nella regione del Manaslu ha nevicato tantissimo lo scorso autunno. Noi siamo arrivati in Nepal il 25 novembre ma siamo andati a fare un trekking di acclimatamento al Makalu ed al campo base dell’Everest e poi siamo arrivati al campo base del Manaslu il 23 dicembre e in quel periodo non ha mai nevicato, per nulla! La montagna era in ottime condizioni. Tanto ghiaccio e alte difficoltà tecniche ma buone possibilità di scalare. L’anno scorso invece le condizioni erano impossibili: nevicava senza sosta. Neve, valanghe, campo base seppellito e noi tutto il tempo impegnati a spalare via neve. Una cosa pazzesca!

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Abbiamo fissato pochissime corde dalle parti del campo uno a seimila metri e poi tra Campo Uno e Campo Due (poco sopra i settemila) ma nessuna corda sopra il secondo bivacco: zero! Da lì in su tutta una rampa, completamente ghiacciata. A crearci difficoltà è stato il vento incessante, a sessanta chilometri orari dai settemila e quattro fino alla vetta, che abbiamo raggiunto alle nove e un quarto del mattino o poco dopo. In discesa il vento si è un po' calmato appena sotto gli ottomila metri, ma nel complesso - tra le prime lunghissime ore di scalata nella notte e le condizioni meteo in generale - è stata durissima, più dura che sul Nanga Parbat. Abbiamo sofferto moltissimo, il Manaslu ci ha castigato!

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© Jackson Groves

SM: In cima vi siete alternati uno alla volta per la foto di vetta…

AT: Sì, tirava tanto per cambiare un vento fortissimo! C’è pochissimo spazio sulla vera vetta del Manaslu. Negli anni scorsi ci sono state delle polemiche, secondo me fuori luogo. Tra la vera vetta (la più lontana, salendo lungo l'itinerario classico) e quella dove a volte ci si ferma la differenza a livello di quota è al massimo di un paio di metri e d’inverno, con più neve al suolo, quella in termini di distanza tra le due punte è … poco di più!

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SM: Avendo ora completato la prima ascensione invernale integrale (secondo i più recenti canoni... formali), che valore assegni alla salita dei polacchi nel 1984, iniziata però in autunno?

AT: Gli alpinisti polacchi sono stati - da Andrzej Zawada in avanti - gli iniziatori delle ascensioni invernali sulle montagne da ottomila metri dalla fine degli anni Settanta: Everest, Makalu, Dhaulagiri, Annapurna, il Manaslu stesso… Noi siamo venuti dopo e dobbiamo portare loro il massimo rispetto, perché oltretutto percorriamo una strada che loro hanno aperto: ne sfruttiamo il lavoro pionieristico. Tecnicamente, trentanove anni fa i polacchi Maciej Berbeka e Ryszard Gajewski avevano iniziato i lavori sulla montagna in autunno, compiendo un’impresa di grandissimo rilievo, ma alla fine hanno scalato in inverno esattamente come abbiamo fatto noi. Semplicemente, le regole del gioco non erano quelle attuali in termini di definizione di “ascensione invernale”. 

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Da questo punto di vista è corretto dire (e sono orgoglioso di poterlo fare) che la prima invernale integrale del Manaslu è la nostra ma - lo ripeto -non si possono fare confronti diretti a livello di tecnica e stile tra oggi e trentanove anni fa.  Berbeka e Gajewski. non avevano le corde fisse a seimila metri. Gli alpinisti sherpa che erano con me hanno utilizzato ossigeno artificiale ma io sono molto orgoglioso dei miei compagni di squadra, che hanno firmato la prima invernale per il loro Paese su un “ottomila” del Nepal. Per quanto mi riguarda l’unico rimpianto, ancora una volta, è non aver avuto Simone in vetta con noi. Per quella che è la mia esperienza, gli alpinisti di etnia Sherpa sono affabili, umili e sorridenti.  Vanno svelti, non segnano il passo e questo è importante nelle e le spedizioni sugli "ottomila" che richiedono molto lavoro, molta strategia e molta pazienza: si sta anche tre mesi lontani da casa. Come leader, sono orgoglioso dei miei colleghi nepalesi. Mi considero il loro allenatore, una sorta di Ancelotti dell'altissima quota. Devo essere da esempio per tutti. Cerco di tirare fuori il meglio da ogni elemento del gruppo. In una situazione di pericolo, vado per primo. Se uno di loro porta venti chili, io me ne metto sulle spalle venticinque. Prima di muovere da un campo a quello successivo controllo uno ad uno il loro equipaggiamento... e il mio solo alla fine.

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SM: Hai un rapporto speciale con la gente che vive ai piedi delle montagne più alte del pianeta. Hai creato dei progetti per aiutare le popolazioni locali, lasci loro molto materiale delle tue spedizioni, ti dai da fare per provare a migliorarne le condizioni di vita. È una sorta di completamento e giustificazione della tua attività alpinistica?

AT: Guarda, tu ora stai parlando con Alex, non con Alex Txikon. Sfortunatamente, la maggior parte delle volte il personaggio Alex Txikon assorbe la persona Alex. In questo momento però parlando con te e con tutti quelli che sono venuti a Brescia a sentirmi raccontare del Manaslu sono una persona rilassata ed appagata. Più ancora, sono la persona che sono grazie a tutta la gente che negli ultimi venticinque anni mi ha aiutato in ogni piccolo momento ed in tanti modi in ciascuna delle spedizioni (trentuno in Nepal, una ventina in Pakistan) alle quali ho preso parte in più di settanta Paesi della Terra. La gente del posto mi ha sempre aiutato, ci ha sempre regalato tanti sorrisi. Ho contratto un debito permanente con la società e l’unico modo che ho per restituire qualcosa è quello di aiutare: questa è la vera "cumbre" definitiva.

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Abbiamo realizzato per gli abitanti del posto due impianti fotovoltaici, in modo da permettere alla gioventù locale di studiare anche di sera e poi abbiamo lasciato loro dei regali: gli stessi per maschi e femmine, per dare un segnale importante, in quel tipo di società. Io oggi ho quarantuno anni. Per quanto mi riguarda, l'età dell'oro delle spedizioni himalayane è stata quella dal 2004 al 2013 ed è quindi conclusa da un decennio. C'eravamo tra gli altri noi spagnoli (io ho iniziato con Edurne Pasaban) e poi tanti italiani: mi piace ricordare Mario Panzeri, Silvio "Gnaro" Mondinelli e Mario Merelli. L'alpinismo sulle montagne più alte del mondo è oggi in parte la nostra eredità.

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Oggi in Nepal ci sono alcune migliaia di scalatori in grado di affrontare cime da cinque-seimila metri e oltre, stanno muovendo i loro primi passi per diventare guide alpine. Laggiù accade oggi quello che è accaduto da noi sulle Alpi e sui Pirenei centocinquanta anni fa, quando i montanari più intraprendenti intuirono che potevano guadagnarsi da vivere ed emanciparsi dalla miseria accompagnando i montagna i ricchi turisti inglesi. È successo da noi, quindi non mi sembra proprio il caso di fare gli integralisti o i puristi in casa degli altri. Tenete conto che, sulla scia di quanto fatto da un visionario come Nirmal Purja, oggi il novantacinque per cento del turismo dell'altissima quota in Nepal è in mano ad agenzie locali. Laggiù non ci sono industrie: la montagna è la vera risorsa di quei Paesi.

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© Benjamin Treble

SM: Vorrei riportarti con la memoria sul Nanga Parbat, dove hai vissuto nel 2016 la gioia della prima ascensione invernale e poi tre anni dopo il compito delle ricerche prima e poi dell’individuazione di Daniele Nardi e Tom Ballard, dispersi sullo Sperone Mummery. Iniziamo con il successo di sette anni fa insieme a Simone Moro, Ali Sadpara e Tamara Lunger che si è fermata poco sotto la vetta. Puoi confrontare quel successo con quello recentissimo sul Manaslu?  

AT: Personalmente, Manaslu e Nanga Parbat suscitano ricordi ugualmente belli ma al tempo stesso non equiparabili. Le due squadre erano completamente diverse. Il team del Nanga è stato qualcosa di unico e sfortunatamente irripetibile, poiché Ali ha perso la vita due anni fa sul K2. Mi dispiace tantissimo non poter più riunire per intero quel gruppo. Al Nanga abbiamo vissuto qualcosa di magico, unico, speciale. In fondo però anche il Manaslu 2023 è stato speciale: non è facile mettere a confronto le due esperienze. In spagnolo diciamo che questi paragoni sono… odiosi, nella maggior parte dei casi.

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Quello che posso dire è che tanto il Nanga Parbat quanto il Manaslu hanno un alone di magia: sono due bellissime montagne di altissima quota e per me più importante ancora è la gente che vive ai loro piedi. Sotto il Nanga ci sono Balti e Chilasi, mentre sotto il Manaslu e nella valle del Nubri popolazioni di etnia tibetana. Gente magnifica che abita luoghi unici al mondo.

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© Dario Rodriguez

SM: Il Nanga Parbat poi è tornato drammaticamente d’attualità quattro anni fa, quando tu e i tuoi compagni avete interrotto la spedizione invernale al K2 per occuparvi delle ricerche di Nardi e Ballard. Hai affermato di aver provato quasi un senso di colpa per come sono andate le cose, relativamente all’esclusione di Daniele dalla spedizione di tre anni prima al Nanga stesso.

AT: Se fossi stato nel 2016 l’Alex che sono adesso… beh, credo che avrei potuto cambiato la decisione di Daniele o quantomeno il suo atteggiamento. Prima di partire per il Pakistan avevamo trascorso due settimane insieme in Argentina ed era stato bellissimo. Al nostro arrivo al campo base del Nanga (il 31 dicembre del 2015) credo che lui abbia avvertito la pressione. C’erano tre o quattro spedizioni diverse al campo base, tutte con lo stesso obiettivo e Daniele probabilmente in quel momento non era abbastanza focalizzato, non aveva la spinta e la motivazione necessaria.

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© Benjamin Treble

Daniele era una bravissima persona e soprattutto un buon alpinista. Penso che fosse un po’ distratto da altre cose, oggi si direbbe che non era connesso con la montagna. E se non sei in sintonia con la montagna e con i tuoi compagni è impossibile riuscire. Giorno dopo giorno si allontanava sempre di più dal resto del gruppo. Inoltre io come capo spedizione sette anni fa non avevo l’esperienza che ho poi maturato: se l’avessi avuta allora... forse sarebbe andata diversamente. Mi dispiace davvero tanto molto che Daniele e Tom abbiano perso la vita sullo Sperone Mummery. Siamo andati a cercarli ma la nostra operazione di soccorso era destinata al fallimento. Alla fine conservo un bellissimo ricordo della nostra impresa del 2016al Nanga Parbat. Il rovescio della medaglia è stato il prezzo altissimo che tutti noi abbiamo pagato alla montagna.

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SM: Adesso ti stai godendo la tua invernale al Manaslu ma hai già qualche progetto per i prossimi mesi?

AT: Sono molto contento di ciò che abbiamo realizzato ad inizio anno e mi piace molto girare l’Europa a raccontarlo. Appena ridisceso dalla cima, arrivato al campo base (che è la vera vetta del Manaslu!) mi sono detto: “Con le invernali ho chiuso”. Solo che i... cattivi pensieri e le cose brutte si dimenticano subito. Ora infatti, due mesi e mezzo dopo, la prospettiva di riprovarci mi intriga ma non ho ancora un obiettivo ben definito… L’Annapurna magari? Chissà! Però no, non lo so ancora. Mi piacerebbe tornare sul Kanchenjunga, del quale ho sfiorato per pochi metri la vetta salendo lungo la parete nord e così... chiudere il cerchio. Oppure sul Makalu che ho scalato nel 2004, per poi tentare l'anno dopo una bellissima via aperta nei primi anni Settanta da alpinisti francesi sul suo pilastro ovest e poi percorsa da Ueli Steck.

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Vediamo cosa succede il prossimo autunno, dipende anche da quanto nevicherà nei mesi di ottobre e novembre. I rischi legati al cambiamento climatico sono sempre in agguato. In passato, me ne hanno parlato sia Reinhold Messner che gli alpinisti polacchi, gli inverni sugli "ottomila" erano durissimi ma stabili, oggi è tutto più complicato e imprevedibile. Come detto prima, due anni fa al Manaslu nevicava senza sosta, c'erano cinque metri di neve al campo base. Quest'anno durante la nostra permanenza ne saranno caduti sì e no cinque centimetri. Quindi stiamo a vedere. Per adesso intanto scalo in falesia, su roccia, al caldo!

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© Cristina Guarnaschelli

Anche se non amiamo particolarmente… sentenziare al termine di un’intervista, mettere ad ogni costo un cappello finale ai pensieri dell’intervistato (che per quanto ci riguarda ha sempre l'ultima parola), facciamo questa volta un’eccezione che ha valore solo in quanto tale, perché ciò che ci sembra di aver… portato a casa dalla serata in compagnia di Alex è - ricollegandoci ai nostri dubbi iniziali - il dilemma tra attaccamento alla vita e prospettiva della morte. Così l’alpinista basco ha definito il fondamento e magari anche il senso della sua attività sulle montagne più alte del pianeta.

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Un dilemma-non-dilemma, ancora una volta, che non appartiene ad un uomo che (come lui stesso ha tenuto a puntualizzare) alla filosofia preferisce l’azione e all’impronta degli scarponi sulla vetta ad ogni costo e a rischio della vita preferisce di gran lunga la furia del vento di notte. Però dentro la tenda del campo base, quando il respiro che congela in stalattiti di ghiaccio sul telo dà materia ai sogni.

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