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Ciclismo, Nibali: "Battuto da dopati: era un fatto culturale, ma io non ci ho neanche mai pensato"

L'ex ciclista siciliano: "Sono stato pedinato e controllato un milione di volte, sempre a testa alta"

03 Mag 2025 - 11:37
 © Getty Images

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Vincenzo Nibali ripercorre il suo passato, soffermandosi in particolare sul controverso rapporto tra il mondo del ciclismo e le sostanze dopanti: "Quando ho lasciato la Sicilia i miei genitori mi hanno detto: 'Vai in casa d’altri, comportati come si deve. Se ti impongono scelte sbagliate torna e troverai sempre noi e un lavoro'. È stata una frase decisiva - ha raccontato l'ex ciclista in una lunga intervista al Corriere della Sera -. A cosa si riferivano? Al doping, se ne parlava tanto in quegli anni. Quella frase mi ha aiutato a capire il percorso giusto".

Nibali ha ammesso che l'utilizzo di doping da parte di alcuni suoi colleghi potrebbe avergli tolto parecchio in termini di risultati in carriera, come avvenne alla Liegi del 2012, quando fu battuto dal kazako Iglinskij (trovato positivo all'Epo nel 2014 e squalificato per due anni): "Non mi sono mai posto la domanda di quanto ho perso per colpa del doping, probabilmente tanto. Alla Vuelta (quella vinta nel 2010, ndr) me la giocai con tale spagnolo Mosquera, poi radiato. E se avesse vinto lui e non l’avessero scoperto?".

L'ex corridore messinese non ha comunque nascosto di aver avuto compagni, gregari e capitani che facevano uso di sostanze illecite: "Andavano alle corse come si andava in guerra, era un fatto culturale per quella generazione. Detto questo, se non volevi non ti dopavi: la generazione successiva ha cambiato il modo di pensare e se adesso c’è un ciclismo pulito credo sia anche merito nostro".

I sospetti, naturalmente, hanno coinvolto anche lui, che però si è sempre tenuto alla larga da certe abitudini: "Vincevo, ero italiano e il boss della mia squadra, Vinokourov, aveva un passato ambiguo come altri manager. Sono stato pedinato, mi hanno aperto la macchina e controllato il telefono e sono sicuro che mi siano entrati anche in casa per trovare prove che non esistevano. I ciclisti erano bersagli facili. Mai nella vita mi sono dopato e soprattutto mai ho pensato di farlo. Mi hanno controllato un milione di volte, possono testare le provette anche tra cent’anni. A testa alta, sempre".

Nella lunga chiacchierata col Corriere, Nibali si è soffermato a lungo anche sulle sue origini, su ciò che l'ha avvicinato alla bicicletta e poi sulle vittorie, mai celebrate con entusiasmo irrefrenabile: "Consideravo vincere una cosa normale, non riuscivo mai a lasciarmi andare. Inconsciamente credo che il passaggio da ragazzino discolo a uomo maturo mi abbia cambiato dentro: sempre con il freno a mano tirato, tranne che in bici".

La vittoria alla Vuelta del 2010 e al Giro del 2013 sono state il prologo del suo trionfo più importante, quello al Tour de France del 2014, che lo ha consacrato nell'olimpo del ciclismo italiano insieme a Bottecchia, Coppi, Bartali, Nencini, Gimondi e Pantani, gli unici altri in grado di conquistare l'ambita maglia gialla: "La più grande gioia della carriera, che per un anno si è trasformata in un incubo. Ero travolto, schiacciato da popolarità, richieste, tifosi e giornalisti. Quando passeggiavamo con la bambina in carrozzina ci assalivano. Con mia moglie Rachele volevamo solo scappare da tutto e tutti. Poi ci siamo abituati ma è solo quando ho smesso di correre che ho cominciato davvero a vivere".

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