Dakar, basta con la retorica 

E' pericolosa, ma chi la corre è consapevole 

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Di fronte all'ennesimo lutto che allunga il triste elenco della Dakar occorre una riflessione lucida, lontana dalla retorica di chi – alle prese con la morte di un pilota – chiede di fermarsi, di smetterla con questa corsa al massacro. Il primo punto riguarda il libero arbitrio. Nessuno era obbligato a correre nel deserto africano prima, così come nessuno lo è oggi sull'infernale tracciato da percorrere nell'estate sudamericana.Michal Hernik avevo scelto di iscriversi alla gara spinto dalla sua passione per il fuoristrada. Partire da Buenos Aires per questo pilota di 39 anni era il coronamento di un sogno – sottolineato dal marchio della Dakar tatuato sul polso destro - dopo aver partecipato ad altre gare nel deserto. Hernik era perfettamente consapevole dei pericoli connessi alla sua partecipazione, così come lo sono tutti i piloti, professionisti e amatori, che decidono di dedicarsi alle corse.Che si tratti di fuoristrada o di pista, in comune per tutti c'è il rischio di cadere, di farsi male, di morire. Sono pensieri brutti che, quando corrono, i piloti tendono a rimuovere. Ma la zona d'ombra resta un dato di realtà da affrontare. Il deserto non ha perdonato Hernik, così come aveva fatto con celebrati campioni come Lalay, Sainct e il nostro Meoni, scomparso 10 anni fa in Africa. Uomini che vivevano per 11 mesi con un solo obiettivo, correre la Dakar.Lo stesso discorso vale per chi ogni anno decide di mettere in gioco la propria vita partecipando al Tourist Trophy, sfidando il tracciato dell'isola di Man. Anche correre su quell'asfalto, protagonista di vicende tragiche, è una scelta perfettamente consapevole di chi la compie. Così la maniera migliore per rispettare Hernik è ricordare l'uomo, con la sua passione che lo ha portato in Argentina a confrontarsi con altri compagni di avventura. La retorica dei detrattori della Dakar sarebbe solo un'offesa alla memoria di Michal.

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