SCI ALPINISMO

Di Bianco e... di azzurro  

La nostra esperienza scialpinistica nel “cuore” del Monte Bianco, tra Italia e Francia, in un ambiente severo ed affascinante. che mette alla prova le gambe... e l'anima

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L’invito a prendere parte ad un’uscita scialpinistica esclusiva sul Monte Bianco risaliva a diversi mesi fa: molto prima dell’arrivo dell'inverno, della neve, delle temperature rigide. Era arrivata la scorsa estate dagli amici di Scott. Avevamo accettato con entusiasmo ma un’occasione così non poteva essere presa sottogamba: andava vissuta con la massima consapevolezza e poi raccontata con competenza e passione. L'abbiamo quindi affidata a Tatiana Bertera Manzoni che dal Bianco è tornata con le impressioni di viaggio che state per leggere e con le immagini (le sue e quelle di Giacomo Meneghello/ClickAlps) che ne hanno fissato i passaggi più significativi.

Dling, dlong! Le porte della Skyway si aprono, accompagnate dal caratteristico suono che ho imparato a riconoscere e ad amare: quello che annuncia l’inizio di una nuova avventura. Perché entri in una dimensione particolare, ogni volta che da Courmayeur sali verso il rifugio Torino, all’interno della cabina panoramica ed al cospetto delle montagne più imponenti dell’intero arco alpino. Una dimensione più intima e delicata, che ha a che fare con l’anima. Ti lasci alle spalle i rumori della città, le certezze, le comodità. Per addentrarti in un mondo parallelo, che non è quello dal quale provengo, ma al quale sento di appartenere. Perché se appartieni alla montagna non puoi far finta di nulla. E qua la montagna è … più montagna che altrove: forte, selvaggia, irriverente. Regala ma a volte toglie, è lei a comandare e a dettare le regole del gioco. Che poi gioco non è. Amarla significa accettare il successo e le sconfitte. Ogni vetta un regalo bellissimo, ogni ritorno una lezione di vita.

Esco dalla stazione alle otto e mezza del mattino ed il sole, che si riflette sulla neve, è già accecante. L’aria frizzante però mi fa subito capire che non c’è molto da scherzare. A queste quote basta un filo di vento per trasformare una bella giornata in una bufera. Hélias Millerioux, la mia guida, procede a passo svelto. Da una parte la vetta del Monte Bianco, dall’altra la Cresta di Rochefort e il Dente del Gigante, che richiamano alla mente tanti ricordi: vittorie e sconfitte. Davanti a me la Vallée Blanche ed il ghiacciaio della Mer de Glace: una discesa per sciatori esperti, che in diciotto chilometri porta dai 3466 metri di Punta Helbronner fino a Chamonix: tra guglie granitiche, crepacci, seracchi impressionanti. Un percorso da affrontare accompagnati da una guida alpina esperta del luogo e capace di valutarne i rischi. Così come il giro delle Periades per la Breche de Puiseux, che stiamo per affrontare. Voglio vedere da vicino la parete nord delle Grandes Jorasses, forse la "nord" più famosa delle Alpi. ​

Mentre stringo gli scarponi e calzo gli sci, Hélias mi dà alcune importanti indicazioni da seguire durante la discesa lungo la Vallée Blanche de la Noire che ci porterà fino alla base del Glacier des Periades. Parla un buon inglese … con accento francese. Le sue indicazioni sono poche ma precise. “Io andrò in apertura e farò la traccia. È importante che tu e gli altri, scendendo con gli sci ai piedi, seguiate sempre la mia traccia, che evita i crepacci più evidenti. Se per caso cadi e perdi gli sci, non cercarli sotto la neve muovendoti a piedi”. Siamo in inverno e molti crepacci sono coperti. I ponti di neve, che sostengono il peso dello sciatore, potrebbero crollare sotto il peso di una persona priva degli sci. Siamo un bel gruppetto, di molte nazionalità diverse. Tra noi anche Jeremie Heitz, campione svizzero specializzato nello sci freeride e big mountain, uno di quelli che - quando li vedi volteggiare e saltare sulle lamine - rimani a bocca aperta. Scott, il brand di cui Jeremie è ambassador e che ha organizzato questa esperienza, prepara per lui degli sci personalizzati per le sue discese estreme: lunghissimi e rigidi. È così che lui li vuole.

Partiamo tutti insieme seguendo le indicazioni di Hélias: lui con il suo stile inconfondibile ed io con il mio, di stile, alquanto discutibile. La neve è molto varia: a tratti dura, a tratti crostosa e ventata. Condizioni non semplicissime da gestire: per fortuna gli sci tengono bene. Perdiamo lentamente quota costeggiando crepacci e seraccate. Sotto di noi, la Mer de Glace. Di tanto in tanto Hélias si ferma per attendere tutti i componenti del gruppo e ricompattarlo, affinchè nessuno rimanga troppo indietro. Sta tutto imbacuccato nella sua giacca gialla e si muove come se stesse facendo una gita di piacere. Io invece sono impegnatissima e nella mia testa ruota vorticoso un solo pensiero: non devo, non voglio cadere. Ma in montagna il “devo” e il “voglio” non contano più di tanto, almeno nel mio caso, perché a decidere pare la neve, che alterna tratti soffici ad altrettanti crostosi. Hélias, in prima linea, rompe la crosta nei punti più duri: faccio di tutto per restare nella sua scia.

Arrivati al Glacier des Périades facciamo una sosta per mettere le pelli sotto agli sci ed iniziare la risalita lungo il vallone che si trova sotto al Dente del Gigante. Il “dentone”, come mi piace chiamarlo, da qui non si vede ma è proprio sopra le nostre teste. Immobile, imponente, gentile. Posizionare le pelli sotto agli sci è una specie di rito, capace di darmi piacere. Prima le blocchi in alto, sulla punta dello sci. Poi, con la mano - dolcemente ed accarezzandole - le accompagni fino alla coda e … “tac”, le agganci nuovamente. Solitamente passo la mano una seconda volta sul velluto morbido: non tanto per farlo aderire meglio ma perché è un gesto che mi carica e rilassa al tempo stesso. Allenta la tensione: come fa lo scalatore quando, prima di “ingaggiarsi” su un passo difficile, infila la mano nel sacchetto della magnesite. L’andare in montagna è anche questo: riti scaramantici, piccoli gesti. Ognuno ha i suoi. E la cosa bella è che non si tratta  di utile o inutile, di paranoia o superstizione. In montagna serve quel che serve, ciò che ci fa stare bene, sentire più sicuri. Per me quel gesto è accarezzare le pelli.

Si comincia a salire a zig-zag lungo la vallata. Mi piazzo dietro alla nostra guida e mantengo senza troppo sforzo il suo passo, sostenuto. Sempre più su, circondata da guglie granitiche che al confronto il Duomo di Milano sembra una costruzione fatta … con i mattoncini Lego. E da seracchi imponenti. Il ghiaccio è bianco … azzurro … verde … blu. Dopo qualche centinaio di metri di dislivello il mio passo rallenta. Quello di Hélias rimane sostenuto. Sebbene siamo in neve fresca e lui stia faticosamente battendo traccia. Con lo sguardo fisso sulle punte degli sci, deglutendo ed avvertendo un inizio di arsura in fondo alla gola, alzo solamente gli occhi. Lo vedo avanzare, nella neve alta, come se niente fosse. Penso che forse è colpa mia, che sto cercando di tenere il passo di un Piolet d’Or. Sorrido tra me e me, e seguo le sue indicazioni: “Take your time”. E il mio “time”, evidentemente, non è da Piolet … Mando giù e continuo, convinta di essere allenata a sufficienza per non essere lasciata troppo indietro.

Un’occhiata all’altimetro: abbiamo oltrepassato quota tremila metri e scorgo (era rimasto nascosto sino a questo momento) il canale a quaratacinque gradi che con un altro strappo di quasi trecento metri ci porterà alla Brêche Puiseux. Troppo ripido da salire con gli sci ai piedi: optiamo per la piccozza ed i ramponi. Carico gli sci sullo zaino, peso aggiuntivo e fiore all’occhiello per la parte finale. Mi lego in cordata la mia guida e altri due partecipanti all’uscita. Mi chiedo dove Hélias trovi tutta questa energia: tira come un mulo. Sento il sapore di sangue in gola, il fiato si fa più corto, inizio a percepire un certo calore all’altezza dei quadricipiti. Ora capisco il significato del modo di dire “My legs are burning”.

A corda tesa arriviamo in cima al canale, in un lasso di tempo che mi pare brevissimo ma che non so quantificare. Hélias ride e grida “We are at the top of the world”. Sbuco fuori anche io, guardo dall’altra parte, sul ghiacciaio del Mont Mallet, e penso che abbia ragione. Siamo in cima al mondo. E chi sta sotto, davvero, non può sapere di cosa sto parlando. La montagna regala oppure toglie. Questa volta ha regalato. Con una calata in doppia arriviamo sul ghiacciaio e … finalmente la vedo: lei, la parete più bella, imponente, mitica di tutto l’arco alpino. Quella a cui mai potrò aspirare, quella che ho visto in mille foto e sentito nominare in altrettanti racconti. Ai piedi del versante nord delle Grandes Jorasses penso che, una cosa così, possa solo essere amata. Con timore, riverenza, umiltà.

 

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