La finale della Coppa dei Campioni all'Heysel rappresenta uno spartiacque nella percezione di un evento sportivo
di Andrea CocchiCome in tutte le tragedie c'è un prima e un dopo. In un Paese che ha conosciuto stragi terribili, inspiegabili e impunite, ce n'è stata una che non aveva nessun delirante piano di destabilizzazione politica o una qualche forma di odio razziale o religioso. Ci sono state semplicemente delle persone che sono andate a vedere una finale di Coppa dei Campioni e sono tornate in una bara o con ferite profonde nel corpo e nell'anima. Le colpe dei tifosi inglesi e dell’organizzazione da operetta da parte di Uefa e autorità belghe ha portato a una tragedia assurda, che oggi compie 40 anni. E' diventata adulta portandosi dentro un peso, un'ombra, un'inquietudine che non passerà mai. Chiunque abbia vissuto l'Heysel dal vivo, allo stadio, in campo, davanti alla televisione, sa cosa significhi. Sa, soprattutto, quanto sia difficile convivere con un ricordo che, quando affiora, è sempre accompagnato da un brivido di quella paura dell'inatteso, della sorpresa che spezza le certezze, della conferma che non esista una comfort zone che possa proteggerti dall'ignoto.
Ora che ci si avvicina a una finale di Champions League, all'epoca si chiamava Coppa dei Campioni, è ancora più facile immaginare quel senso di attesa che rende l'evento sportivo così eccitante. Nel 1985, come ora, come sempre, si contavano i giorni che ci separavano da Juventus-Liverpool, atto conclusivo della coppa più importante. I tifosi bianconeri volevano finalmente alzare al cielo quel trofeo che mancava nella loro ricca bacheca. C'era chi si era organizzato per andare a Bruxelles, sede della finale, e chi aveva programmato la classica serata con gli amici. Per un adolescente era stupendo pensare di avere la casa libera per gustarsi un evento così importante con le persone con cui era bello stare.
L'atmosfera delle finali di Coppa dei Campioni è sempre stupenda, anche per chi la vive da casa. Fine maggio, primi caldi, quella luce del tramonto così particolare. Si mangia, si scherza, si ride. Ma come mai non inizia ancora? Le immagini mostrano tifosi della Juventus che entrano dentro il campo, lanciano sassi, si scontrano con dei poliziotti. Si parla di incidenti dentro lo stadio ma è tutto confuso. C'è un appello dei capitani delle squadre, alla fine si giocherà. Meno male, per noi conta quello. Per noi la partita è vera, si esulta, si impreca, ci si arrabbia, si discute. C'è però una vocina dentro che ogni tanto fa capolino dall'inconscio in cui è stata riposta perché non disturbasse l'evento: "Dicono che ci siano dei morti". Dei morti. Proprio qui, proprio al centro della nostra festa? Alla fine ci si abbraccia felici di aver finalmente vinto quella Coppa tanto sognata. La vocina però si trasforma in un brusio sempre più forte fino a diventare assordante il giorno dopo, sull'autobus che ci porta a scuola, mentre si leggono i titoli dei giornali. Trentanove morti, centinaia di feriti. Mentre noi gridavamo a Cabrini di crossare, a Paolo Rossi di tirare, a Boniek di correre e a Platini di non sbagliare quel calcio di rigore. Per gli psicanalisti il senso di colpa è un retaggio giudaico-cristiano. Per chi ha una coscienza è un modo per chiedere scusa. E a poco vale l'alibi di non aver capito, di essere solo un ragazzino, di non avere ancora ben chiare le priorità della vita. Già, la vita. Quella cosa così preziosa da preservare con la massima cura. Quella cosa volata via nel modo più tremendo e per il motivo più futile per 39 innocenti. Per questo quando si pronuncia la parola Heysel, inevitabilmente, da 40 anni, il cuore perde sempre un battito.