Alpinismo, la profezia di Tom Ballard: "Preferirei non morire nel mio letto"

Pensieri, sogni, ambizioni del compagno di spedizione di Daniele Nardi scomparso un mese fa sul Nanga Parbat

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"Sono cresciuto tra le montagne: prima nel Derbyshire, a Belper, la cittadina d’origine di mia mamma Alison Hargreaves, poi a Fort William. Là mi sentivo bene: è quaggiù che mi sento un po’ a disagio. Mi chiedono sempre: a cosa pensi quando scali le montagne? A tua madre? Allora io rispondo: no, ovviamente penso più che altro a non precipitare".

Sono le prime parole della lunga intervista rilasciata quasi quattro anni fa (primavera 2015) da Tom Ballard a Robert Chalmers per l’edizione inglese della rivista GQ. Chalmers la raccolse in un giardino pubblico dalle parti della stazione di Verona dove il suo connazionale morto sul Nanga Parbat insieme a Daniele Nardi (con ogni probabilità proprio un mese, fa, il 25 febbraio) gli aveva dato appuntamento. Legando la sua disponibilità ad un paio di richieste strane: trovarsi appunto nella città veneta e non tra le Dolomiti (dove viveva in un campeggio con il padre Jim) e… portargli ottanta euro, la cifra necessaria per il biglietto di ritorno in corriera tra le montagne…

Qui di seguito riportiamo le risposte più significative di Tom (quasi tutte, una trascrizione-traduzione pressoché integrale) perché, a nostro parere, aiutano a tratteggiare la sua personalità. Andando avanti e indietro tra i suoi pensieri, scoprirete forse con emozione qualcosa di più sulla sua persona. La sua franchezza, la sua spontaneità, la sua calma determinazione. La vita, la montagna, l’amore, l’alpinismo, la famiglia, la morte. E il destino. Più di un presagio si insinua tra pensieri disincantati ed al tempo stesso inquieti (ma soprattutto drammaticamente profetici) di questa intervista-confessione. Che ora riprendiamo proprio dove l’avevamo lasciata poco sopra.

"Voglio dire … non fraintendetemi. Credo che mia madre sia presente qui con noi mentre parliamo, in spirito. Ma sarebbe fuorviante per chi legge pensare che la mia attività alpinistica sia un tentativo di seguire le sue tracce. Di lei rammento veramente poco. Avevo sei anni all’epoca della sua morte. Ricordo che era dolce, generosa e però tremendamente determinata. Insomma, lontana anni-luce dallo stereotipo dello scalatore. Il suo motto era un detto tibetano: meglio un giorno da tigre che mille anni da pecora. Ha a che fare con il coraggio, certo. Ma per me arrampicare ha più a che fare con una fuga dalla vita normale. Insomma, nel mio caso non si tratta esattamente di coraggio, anzi proprio l’opposto".

"Probabilmente serve molto più coraggio per vivere quaggiù. Forse è addirittura una specie di codardia quella che ci spinge a nasconderci tra le montagne. E allora cominci a domandarti: dove finisce il coraggio e dove inizia la stupidità? Mi sono trovato diverse volte in situazioni critiche tanto da pensare: ‘Dio, sono proprio nei guai!’ Subito seguito da: ‘cosa ci faccio qui?’ Mi è capitato soprattutto quando le condizioni erano sfavorevoli. La scorsa estate lungo una via di roccia ho trovato condizioni veramente precarie. Sapevo che al minimo errore sarei volato di sotto. Quella volta mi sono davvero chiesto che cosa c****o stessi facendo là sopra ma alla fine, sai, si tratta delle solite domande senza senso del tipo: perché ci si infila un ago in un braccio?"

"Poi comunque è curioso come l’incidente a volte capiti nei posti dove proprio non te lo aspetti. Tutte le volte che ho commesso un errore è stato per mancanza di concentrazione. Tipo quando fai la stessa strada ogni giorno. Giri l’angolo sovrappensiero perché lo fai tutti i giorni e non ti è mai successo nulla ed invece e proprio quella volta finisci sotto una macchina. Chiamiamoli i rischi dell’abitudine. Non per questo devi smettere di seguire la tua strada. Dobbiamo sempre seguire seguano la nostra ispirazione. Abbiamo tutti diritto ad essere liberi di volare. Applicando questo principio all’alpinismo estremo, dove anche i migliori scalatori rischiano la morte, il pericolo di solito è legato all’imprevedibilità delle condizioni meteo. E questa secondo me (ed anche secondo mio padre) è una delle ragioni per le quali non ha senso parlare di ‘conquista’ di una montagna. Cosiccome non ha senso parlare di ‘conquistare’ qualsiasi altra cosa nella vita, men che meno una montagna appunto. Perché poi magari sei lì a dirti che le condizioni sono difficili ed ecco che Madre Natura ti apparecchia qualcosa di ancora più enorme e molto peggio di quello che già avevi davanti. Non capisco neanche come possa esistere il termine ‘conquista’ nella nostra lingua".

"Riconosco che il pericolo sia un elemento di attrazione per noi alpinisti, anche se non siamo disposti ad ammetterlo. Ma l’alpinismo non è lontanamente assimilabile per esempio al base jumping dove sei sempre in cerca di quel certo brivido. L’alpinismo ha una componente importante di ‘quiete’, specialmente quando sei in vetta, quando senti di avere raggiunto un traguardo. Scalare montagne è una combinazione di cose: bellezza, pericolo, senso di soddisfazione. E dà dipendenza. Molta. Quando qualcuno di noi ha un incidente mortale in montagna, cerchiamo qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa. Il problema è che non si può dare la colpa alla montagna".

Sull’Everest alcuni scalatori sono poco più che turisti. Hanno scarsissima esperienza. Ma hanno tanto denaro. E l’ossigeno. E gli sherpa che gli portano su tutto. Nella vita, io credo al valore dell’apprendimento. Mia mamma è arrivata in vetta all’Everest senza ossigeno artificiale. Con le sue sole forze. Non aveva portatori d’alta quota. E questo già trent’anni fa. Quindi che senso ha salire al giorno d’oggi sull’Everest come aveva fatto Edmund Hillary addirittura nel 1953 (con le bombole di ossigeno, ndr)? L’alpinismo non è scalare e basta. Ciò che conta è – in larga parte – come ci riesci, lo stile della salita. Probabilmente è vero che il peso più terribile che un figlio debba portare sia la vita non vissuta dai propri genitori. E che lo sia sotto molti punti di vista: nel bene e nel male. Ma, allo stesso tempo, potrebbe anche essere una grandissima sciocchezza. Sono perfettamente cosciente del fatto che vivo nell’ombra di mia madre. La gente continuerà a dire: Alison Hargreaves che è morta sul K2, bla bla bla e - ma guarda un po’ - suo figlio Tom scala anche lui montagne. Forse questo prima o poi cambierà. Con il tempo".

"Sono legato alla montagna, amo le montagne. Quindi capisco molto chiaramente perché mia mamma ci andava e come sia rimasta uccisa facendo ciò che amava. Voglio dire, se è così, non puoi davvero desiderare di meglio, no? Preferisco che sia morta assecondando la passione della sua vita piuttosto che averla magari vista sopravvivere per anni, già condannata da qualche terribile malattia. Io stesso, a pensarci bene, preferirei non morire nel mio letto".

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