ALPINISMO

"A dicembre torno al Manaslu perché l'alpinismo invernale è una scelta", Simone Moro pronto a ripartire

L'alpinista bergamasco traccia un bilancio della stagione di scalate invernali sulle montagne più alte del pianeta: dal K2 al "suo" Manaslu.

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Il valore della rinuncia attiva: base per nuovi progetti ed una ripartenza lontana da... ristrettezze e restrizioni di questi tempi: è il concetto che - a nostro parere - riassume il senso della chiacchierata con Simone Moro al tepore di una tarda mattinata tardoinvernale ed appunto soleggiata sulle prime alture delle Prealpi Orobie. Anche se... solo in videoconferenza! Ripercorrendo e rivisitando gli eventi, i "nodi" e le opinioni di una storica ed al tempo stesso drammatica stagione di scalate invernali sugli "ottomila" della Terra. 

RITORNO AL MANASLU

Allora, questa è una delle poche volte che - appena tornato a casa - ho già chiaro in mente il mio piano: tornerò al Manaslu per la quarta volta e la partenza sarà all’inizio di dicembre di quest’anno. Quindi, visto che siamo a metà marzo, tra nove mesi riparto. È il tempo di… gestazione di questo progetto. Voglio partire prima! Senza cambiare le regole dell’inverno, voglio arrivare in Nepal per fare un po’ di acclimatamento nella valle del Khumbu, che è quella dell’Everest, e lì decidere quale montagna salire. Per esempio non ho mai fatto l’Ama Dablam. Non è molto alto (si fa per dire: 6812 metri, ndr) però ho visto che, se quando sei in fase di acclimatamento hai il piacere di scalare, beh... da questo punto di vista è un delitto essere stato tante volte dalle parti dell’Everest e non avere ancora salito l’Ama Dablam. Mi piacerebbe farlo e poi raggiungere il Campo Base del Manaslu il 21 dicembre, in modo da poter poi sfruttare gli ultimi giorni di dicembre ed i primi di gennaio con tempo stabile e bello prima dell’arrivo del jetstream (le correnti a getto, ndr). Quest’anno non lo abbiamo fatto a causa della pandemia. Anche se fossimo arrivati prima ci avrebbero tenuti per quindici giorni in quarantena per poi fare il test ed aspettare altri sette giorni per l’esito. Quindi tornerò per la quarta volta al Manaslu: è un record! Neanche il Nanga Parbat mi ha impegnato e respinto così tante volte. Però si fa: la montagna vince e noi perdiamo, quando la montagna non vuole.

IL PREZZO DELLA RINUNCIA

Rinunciare al Manaslu mi è costato meno di altre volte. Non so se perché con il passare degli anni e - nell’alternanza tra successi e fallimenti - ormai ho metabolizzato che rinunciare non è qualcosa di cui uno debba vergognarsi. Ho sentito la responsabilità di comportarmi nella maniera più conservativa possibile. Che non vuol dire arrendevole ma appunto conservativa. Cioè quando capivo o Karl Gabl (il mio meteorologo di fiducia) mi diceva che era in arrivo il cattivo tempo, eh… non ci pensavo due volte: giravo i tacchi e tornavo indietro. Forse anche perché quest’anno c’è stata questa grandissima tragedia sul K2, terminata la quale tutti gli occhi sono venuti su di noi. Gli eventi del K2 hanno influito nel senso che appunto ho avvertito la responsabilità di non gravare il mondo dell’alpinismo di un’altra notizia negativa. Se anch'io ed il mio compagno di spedizione Alex Txikon fossimo stati vitima di un incidente, credo che il mondo dell’alpinismo - comprese tutte le aziende del settore e la stampa specializzata - sarebbe stato sotto attacco. La gente avrebbe detto: ma questi sono una banda di matti, ma altro che scalate invernali! Non sarebbe più passato il messaggio delle "invernali" come modo virtuoso di fare alpinismo più difficile ma qualcosa del tipo: questi sono tutti matti, è un rave party…! E allora io la responsabilità un po’ l’ho avvertita.

K2 INVERNO 2021: SUCCESSO E TRAGEDIA

Sono contento che i nepalesi ce l’abbiano fatta perché, se analizzo la storia delle invernali sugli “ottomila”, ora ci sono tutti: ci sono i pakistani con Ali Sadpara al Nanga Parbat, in rappresentanza di un mondo più silenzioso – anche meno preparato, per una questione di tradizioni – rispetto a quello nepalese. Poi ci sono appunto i nepalesi che a loro volta erano stati protagonisti… silenziosi di tante imprese invernali ma non erano andati in vetta solo perché lavoravano per mandarci gli altri. Ci sono i polacchi che le invernali le hanno inventate e poi c’è il primo… non polacco che sono io, quello che ha più invernali di tutti nel proprio curriculum. Nella storia delle invernali insomma c’è tutto: c’è tragedia, trionfo e un po’ tutto. Ci sono i protagonisti: soprattutto polacchi ma poi – ho aperto io la strada – ci sono tutti gli alpinisti occidentali. Io al K2 non c’ero: posso solo dire che non sono andato perché avevo paura dell’alto numero di… “iscrizioni” - usiamo questo termine - al sogno del K2. Sono contento di aver fatto questa scelta perché magari avrei potuto essere io a trovarmi nei guai e magari a pagare un prezzo alto come poi purtroppo è successo alle vittime. D’altra parte mi dispiace perché se fossi stato lì e non coinvolto direttamente, magari avrei potuto dare una mano. Oltre a quella che, nei limiti del possibile, è stata data da chi era sul posto. Non ero con Tamara (Lunger, ndr) che ha vissuto un dramma che sta vivendo ancora adesso perché insomma, Sergi Mingote le è morto tra le braccia, i tre che partivano per la vetta (Sadpara, Snorri e Mohr, ndr) li ha salutati dando loro appuntamento di lì a 24-48 ore e non li ha più rivisti, il bulgaro Skatov che è precipitato non so se lo ha visto ma comunque ha appreso la notizia mentre stava ancora scendendo dalla montagna. Non dico che lo avevo previsto, perché sarei irrispettoso, però avevo previsto che ci sarebbero stati dei rischi perché ci sarebbe stato meno spazio per i campi e tanta gente sulle corde fisse. Però mai avrei pensato che questa sarebbe stata la stagione invernale più luttuosa della storia. C’erano stati più morti nel 2008 ma non era inverno e poi qui ci sono dei misteri. Non si sa dove siano finiti Ali, John e Juan Pablo, non si sa se sono andati in cima e cosa sia successo. Qui c’era molta più attenzione rispetto a tredici anni fa: lo sanno tutti che sono morte cinque persone quest’anno sul K2.

IO E TAMARA

Abbiamo scalato insieme per cinque anni. Mi spiace non essere stato con Tamara questa volta perché magari avrei potuto aiutarla. Sto parlando dal punto di vista emotivo. Tecnicamente non ne ha bisogno. Però magari… boh, avremmo fatto delle scelte assieme. Le sarei stato più vicino e insomma avrei potuto esserle più utile rispetto a quanto ho potuto fare a distanza. In realtà eravamo già in contatto - e stavo attivando le mie conoscenze per mandare gli elicotteri – quando lei aveva tra le braccia Mingote morente. Ho cercato di aiutarla ma lei è un’alpinista indipendente, ha dimostrato proprio in questa occasione di saper gestire una situazione molto difficile. Spero anche che la sua rinuncia – dettata dal fatto che non stava bene – sia almeno in parte frutto dei nostri cinque anni assieme, nei quali ha visto come prova provata - da me - che rinunciare non solo si può ma si deve e bisogna farlo sempre più spesso. La rinuncia ti può far perdere la vetta (e magari poi scopri che potevi proseguire), però non ho visto nessuno che rinunciando è morto. Tamara ha dimostrato di aver imparato la lezione: lo aveva già fatto rinunciando al Nanga Parbat (nel 2016, a soli settanta metri dalla vetta, ndr), adesso lo ha rifatto e si è salvata la pelle. Altrimenti, visto che era insieme a Snorri, forse adesso saremmo qui a piangere anche lei.

DISPERSI SUL K2: SARANNO RITROVATI?

Alcuni degli sherpa che questo inverno sono arrivati in vetta - con i quali ho parlato - mi hanno detto che secondo loro li troveranno quest’estate appesi alle corde fisse: io non credo. Secondo loro sono morti di stenti, uno dei tre si è trovato in difficoltà e gli altri hanno provato a dargli una mano ma di solito in quel caso non ci si comporta così: essendo in tre, uno sta lì e l’altro scende di corsa a chiedere aiuto. E cosa è successo… Mah, secondo me, io ho visto le fotografie ed ho visto un sacco di blocchi di ghiaccio del grande seracco caduto. Erano così grossi che i nepalesi hanno addirittura potuto camminarci sopra, sul ghiaccio duro ed anche per questo sono riusciti ad essere piuttosto veloci. Perché se avessero dovuto fare la traccia nella neve non sarebbero riusciti ad andare in vetta nemmeno loro (parole loro, eh!). Quindi io penso più ad un evento improvviso che li ha fatti fuori tutti e tre, Sadpara, Snorri e Mohr: o la corda fissa che si rompe, se erano attaccati tutti a tre allo stesso spezzone, o il seracco che cade. Perché invece un crepaccio… casomai ne cade uno nel crepaccio, non tutti e tre assieme. Valanghe non penso perché – dalle foto – pericoli di valanghe non ce n’erano. Il vento… di solito il vento ne strappa via dalla parete uno, non tutti e tre assieme. Oppure potrebbero essere stati scaraventati giù dalla parete. Oppure ancora uno di loro che cade e trascina gli altri due che erano attaccati alla sua corda. In ogni caso sarà dura ritrovarli… Però, boh … Magari sono là… Sono curioso di vedere se sarà possibile ritrovarli quest’estate. Comunque propendo per un evento improvviso. Però tutti e tre, che nessuno sia più riuscito a mandare un segnale, non si sia visto niente …. Boh, è un grosso punto di domanda.

SULL’ORGANIZZAZIONE DELLE SPEDIZIONI

Mah, guarda, al giorno d’oggi quando succede qualcosa… si deve a tutti i costi trovare un colpevole. Una volta quando facevi una… cavolata, ti vergognavi a dirla. Oggi la gridi al mondo perché vuoi trovare un colpevole (diverso da te, ndr). Onestamente, pur nella perfettibilità dei comportamenti di ciascuno di noi, i colpevoli di quello che è successo al K2 sono le scelte personali e quindi in questo senso la parola “colpevole” non è nemmeno quella corretta: la conseguenza delle scelte personali è stata la morte. Se Mingote è caduto perché è inciampato dentro qualcosa è perché era stanco e se lo era, lo era perché… si era stancato. Se si rompe la corda fissa allora sì, può esserci la responsabilità di chi doveva controllarne l’efficienza. Ma poi pensa anche alle polemiche sollevate da chi ha detto che i nepalesi avevano tolto le corde fisse scendendo. Non esiste sulla crosta della Terra un alpinista che toglie la corda fissa mentre scende! Per togliere le corde fisse, devi privarti tu per primo della possibilità di usufruirne e quindi farcela in corda doppia (una tecnica di arrampicata in discesa, ndr), te le devi caricare addosso e prima ancora devi perdere un sacco di tempo per avvolgerle. Se i nepalesi fossero stati i più grossi “bastardi” della Terra (e non lo sono, perché li conosco), proprio da “bastardi” avrebbero potuto dire: non le abbiamo tolte perché ci avremmo rimesso la pelle. E magari qualcuno avrebbe controbattuto: ecco, le hanno lasciate ed hanno deturpato la montagna. Per assurdo mi sarei aspettato una polemica del genere ed invece – meno male - nessuno se ne è uscito con questa che peraltro sarebbe forse stata l’unica critica pertinente. Però hanno detto: le hanno tolte per non far andare su noi. Ma i nepalesi si sono fatti un… mazzo bestiale per portarle su e per fissarle e non avrebbe mai avuto nè il tempo né la forza per toglierle. Oltretutto, facendolo, non sarebbero più riusciti a scendere. È più facile dare la colpa a qualcuno che ammettere: io lì non dovevo esserci.

L’INVERNO SUGLI OTTOMILA

L’inverno innanzitutto è una scelta. Voglio dire: l’alpinismo invernale è veramente una scelta e deve essere una scelta consapevole. Chi non l’ha mai fatta… fa una scelta inconsapevole fintanto che non prova. Io penso che quest’anno al K2 c’erano – in buona fede, ovviamente – tanti inconsapevoli, anzi troppi. Cioè tanti che hanno detto: mai più al K2 in inverno ma ci voglio provare d’estate! E questa frase l’ho sentita dire da più di un protagonista della stagione invernale che ci siamo lasciati alle spalle. Come a dire: sì, forse era meglio se affrontavo il K2 in estate per poi solo dopo tentarlo in inverno. Però io ho detto “in buona fede” perché il sogno era talmente succulento e goloso che oggi - viviamo in un’epoca in cui non si ha più paura di niente - probabilmente nelle giovani generazioni il K2 fa molta meno paura di vent’anni fa. Tanti hanno provato ed hanno preso su delle belle bastonate, che sono salutari: sentire che il novanta per cento di queste persone non tornerà più in Himalaya o in Karakoram mi tranquillizza perché se questi qui dovessero farsi male, non succederà per colpa della loro scelta ma a causa dei pericoli intrinseci della montagna. L’inverno è veramente la stagione più inospitale dell’anno per l’alpinismo d’alta quota: più ancora in Pakistan che in Nepal, per una questione di isolamento e di latitudine, per possibilità di approvvigionamento con gli elicotteri ed altro ancora, come il reperimento di portatori, ed è quindi una scelta consapevole che ti deve fare capire un bel po’ di cose. Che il freddo non sarà il vero o unico problema perché oggi comunque oggi attrezzature ed abbigliamento sono efficienti. Che non ci sarà un posto caldo e se hai i piedi freddi non li scaldi più. Che dovrai avere più pazienza perché ci sono solo due o tre finestre di bel tempo in una stagione e devi essere pronto a stare quindici-venti giorni seduto in una tenda e quindi essere molto più forte psicologicamente che non emotivamente. Perché se non lo sei poi cominci ad andare a tentare quando non ci sono le condizioni e questi tentativi motivati dall’impazienza sono quelli che più facilmente diventano fatali. In più hai il quindici per cento di possibilità di farcela e di conseguenza l’ottantacinque di fallire. Quindi devi pure essere uno abituato a fallire e non ammazzarti solo perché non sei disposto a fallire. L’inverno è veramente tanto… è tutto più… incasinato. Ed è affascinante, perché rivedi le montagne – a parte probabilmente il K2 di quest’anno… - come le potevi vedere mille anni fa. Nel senso che al Campo Base ci sei tu e magari altre quattro o cinque persone. Ti senti un esploratore e capisci che devi proprio esserlo perché le abilità di sopravvivenza sono molto più necessarie rispetto alle quelle richieste per prendere parte ad una spedizione commerciale.

IL “MIO” ALPINISMO SPIEGATO AD UN BAMBINO

Il mio alpinismo è solo figlio di un sogno. Non di una visione ma fondamentalmente solo di un sogno. Perché il “mio” alpinismo ha provato – e prova ancora – a non essere la copia “virtuosa” di un alpinismo già fatto. Voglio dire: Nirmal Purja ha fatto una cosa strepitosa, ma ha fatto una rivisitazione – più veloce – di un alpinismo fatto e rifatto da quarantatrè persone: lui è stato il quarantaquattresimo, il più veloce (a salire tutti i quattordici “ottomila” del pianeta, ndr). Dal punto di vista della performance: mostruoso. Dal punto di vista esplorativo: zero! Veramente mostruoso, eh! Banalizzare quello che Nims ha fatto è davvero irriverente. È stato anche quello figlio di un sogno: mostrare al mondo che i nepalesi meritano di essere considerati per quello che valgono davvero. Però il mio alpinismo è diverso: io cerco di concentrarmi su cosa l’alpinismo in generale (e non gli altri alpinisti) può ancora porsi come nuovi traguardi. Tipo: correre la maratona sotto le due ore – in una gara vera – non è ancora stato fatto. Quelle sono le Colonne d’Ercole. Io ho cercato di trovare le mie Colonne d’Ercole, che però fossero alla mia portata, modestamente. Il fatto che abbia tentato senza successo la traversata Everest-Lhotse significa che fino ad ora non è stata alla mia portata. Una volta magari puoi essere sfortunato ma poi… Adesso ho imparato a dar sempre la colpa a me stesso e non ai fattori esterni. Quindi ho sempre cercato di fare un alpinismo che fosse frutto  di un sogno che fosse completamente mio, ok? E quindi anche che il fallimento fosse completamente mio, o che casomai si sommasse a quello degli altri. E oggi scommettere su te stesso… eh, è… una bella avventura! Perché in quel caso tu non cerchi un lavoro, un impiego: cerchi una tua dimensione. Scommetti tutto: economicamente, socialmente, affettivamente. Poi a me è andata bene perché non nascondo che chissà quanti ci hanno provato e magari non ci sono riusciti perché non sono nati in Italia o non hanno fatto gli incontri giusti. A me è andata bene. Però, quello che io cerco di insegnare a Jonas o a Martina non è arrampicare ma credere nei propri mezzi ed essere coerenti con le proprie scelte. Se vuoi fare questo o quest’altro, io ti do una mano. Dopo però devi essere un… caterpillar! Devi farmi vedere che ci credi veramente. Perché l’uomo è programmato per fallire e non per vincere. Noi siamo programmati per fallire, in tutto: imparare a camminare, imparare una lingua, imparare a studiare, imparare un lavoro, impararare a relazionarsi, ad amare. Falliamo sempre finchè riusciamo a non fallire. E siccome siamo programmati per fallire, come ho scritto nel sottotitolo del mio ultimo libro, spero che mio figlio impari anche la sofferenza e la fatica, perché solo così riesci un giorno a non fallire. Eri programmato per fallire e invece riesci a vincere. Ed allora lì godi… anche in alpinismo! Per questo andrò al Manaslu per la quarta volta!

TRE OBIETTIVI PER IL FUTURO DEL GRANDE ALPINISMO HIMALAYANO

C’è una montagna dirimpettaia agli “ottomila” del Pakistan, che si chiama Masherbrum e che grazie a Dio non è un “ottomila” e poi ce n’è un’altra che si chiama Gasherbrum IV e che grazie a Dio non lo è nemmeno lei! Dico grazie a Dio perché i collezionatori “inciccioniti” degli “ottomila” (e ce ne sono), queste due montagne… col piffero che le salivano, anche se avevano gli sherpa. A meno che non gli mettevano una funivia. Ecco, queste due montagne, che ha tentato anche gente come David Lama e Hansjoerg Auer o come Hervé Barmasse, hanno respinto pressoché tutti tranne un uomo una sessantina di anni fa: Walter Bonatti (sto parlando ora del G IV) insieme a Carlo Mauri. E già ripetere questa via aperta sessantatrè anni fa sarebbe da Piolet d’Or (uno dei più prestigiosi riconoscimenti alpinistici, ndr). Nel senso che erano talmente avanti - quei due là - che già ripetere la loro via sarebbe una storia straordinaria, anche a livello di marketing e non nascondo che sarebbe una cosa che mi piacerebbe fare. Avresti molta più attenzione che non andando sull’Everest. Ci sarebbero tantissime cose da raccontare: sia sulla via in se stessa, sia su quanto fossero visionari Bonatti e Mauri. Perché io sono convinto che chi ripeterà quella via verrà a casa e dirà: ma quelli là come c… han fatto a venir su di qua? Poi c’è la parete nord del Lhotse che non ha neanche mezza via, anzi neanche un tentativo, zero. Ed a proposito di Everest e dintorni, c’è ancora una via da aprire. Una via logicissima, che è uno sperone, uno spigolo sul versante est, che ha anche già un nome: la chiamano Fantasy Ridge e si innesta sui pinnacoli dove nel 1982 morirono Boardman e Tasker, quando salirono la cresta ovest. Sarebbe un viaggio lungo una linea fantastica… e logica, appunto.

DA QUI AL PROSSIMO INVERNO

Allora, Simone Moro è invecchiato… cronologicamente (una volta dicevo “cresciuto”…) ma biologicamente sono veramente grato ai miei genitori e al buon Dio che mi hanno regalato una salute di ferro, perché ancora non ho avuto un infortunio. Penso che completerò il mio progetto cinematografico su Gino Soldà (alpinista veneto molto attivo negli anni Trenta con l'apertura di diverse nuove vie soprattutto nelle Dolomiti, ndr). Mi sto già preparando, ho già ripreso ad allenarmi, perché devo andare a ripetere le sue vie al Sassolungo e alla Marmolada che risalgono a più di un secolo fa ma per ripeterle devi essere allenato, altrimenti ti fai male. Questo per dire che... non è che noi siamo dei fenomeni e loro erano dei brocchi. Queste salite le farò con il figlio di Reinhold Messner – Simon – che ho voluto come coprotagonista. Poi c’è il progetto elicotteristico perché dovrò mangiare anche da vecchio e per gli alpinisti non c’è la pensione. Ho appena preso una nuova macchina ed ora devo farne lavorare e mantenere tre. Gli elicotteri sono l’altra mia grande passione, quella che mi fa venire le farfalle nello stomaco come l’alpinismo all’inizio ma in fondo anche quello che pratico oggi, quando mi prefiggo un obiettivo particolare. Ho anche un progetto all’estero, importante. Poi c’è la famiglia, i figli che crescono e poi… ci sarà il Manaslu il prossimo inverno. Quindi mi sa proprio che non morirò di noia!

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