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Verona campione. L'impresa compie 35 anni 

I gol di Elkjaer e Galderisi, le parate di Garella e l'umanità di un allenatore operaio: storia di una stagione pazzesca

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Il 12 maggio del 1985 è una data da segnare in rosso nella storia del calcio italiano: quel giorno il Verona vinse il primo e unico scudetto della sua storia al termine di una stagione vissuta in testa fin dalla prima giornata con la vittoria sul Napoli di Maradona, finita in trionfo nonostante la resistenza di un grande Torino e dell'Inter di Rummenigge e Brady. Storia anomala e tutta da raccontare a chi non c'era. 

Arrivare al campo di allenamento con i mezzi pubblici è un privilegio per pochi, quando si arriva ai livelli più alti. Negli ultimi 50 anni di serie A i casi di questo tipo sono una percentuale infinitesimale ma c’è un signore che il piacere di leggere i giornali al bar e poi salire su un pullman per andare al lavoro non se l’è mai negato, nemmeno quando stava guidando la sua squadra a un’impresa unica, irripetibile e inimitabile: quella di portare lo scudetto a Verona. Questo signore si chiama Osvaldo Bagnoli e mentre si gode una tranquilla pensione nel suo buen ritiro veronese sicuramente non dimentica quell’annata meravigliosa, quella cavalcata eroica alla quale nemmeno l’Inter di Rummenigge e Brady riuscì a opporsi con successo. Le abitudini sicuramente non sono cambiate, perché “il primo macchinone”, come lo definiva lui, fu una Citroen Station Wagon comprata quando guidava l’Inter. Oltre quel livello di lusso non è mai voluto andare.

Sempre accompagnato dal suo inseparabile berretto, è stato definito “il Buster Keaton del calcio”: a beneficio delle nuove generazioni. Buster Keaton è stato uno dei pionieri della comicità cinematografica ai tempi del bianco e nero. Faceva ridere con la sua faccia triste e tutto questo può sembrare un paradosso, ma anche nel modo di fare del signor Osvaldo c’è sempre stato qualcosa di paradossale: pur avendo quell’aria minimalista, è sempre riuscito a trasmettere la sua straordinaria umanità ai suoi giocatori. Perché per lui il calcio lo fanno i giocatori e non gli schemi, perché (lui lo dice in milanese) “il terzino fa il terzino e il mediano fa il mediano”, perché aveva la lacrime agli occhi quando fu costretto a dire a Francesco Guidolin di trovarsi un’altra squadra perché il Verona aveva comprato un altro giocatore che poteva togliergli spazio. Secondo una vecchia abitudine milanese, ha sempre indicato i suoi giocatori con un articolo determinativo prima del cognome, così che Di Gennaro era “il Di Gennaro”, Volpati era “il Volpati”. Il suo Verona giocava un 5-3-2 che può essere considerato il precursore del 3-5-2 che utilizza Conte a distanza di trentacinque anni. Ma un giorno in vena di confessioni spiegò: “Tutti dicono che io ho inventato il 5-3-2 ma in realtà non è così, io non ho fatto altro che osservare le caratteristiche dei miei giocatori per capire che il Fanna mi poteva fare tutta la fascia così potevo permettermi un marcatore in più alle sue spalle”.

Una corrente dietrologica attribuisce molti meriti dello scudetto 1985 al sorteggio integrale degli arbitri che venne applicato solamente in quella stagione. Una tesi ovviamente non dimostrabile e che richiederebbe un’analisi molto accurata. Molto più semplice raccontare di come il lavoro di Bagnoli sia stato importante per amalgamare un gruppo spinto da motivazioni straordinarie e che anche nella stagione precedente aveva dato le sue soddisfazioni. Quel Verona era una squadra che giocava praticamente a memoria, basata su titolari quasi fissi con qualche valida alternativa. In porta c’era Claudio Garella detto Garellik, un gigante un po’ sgraziato ma tremendamente efficace, che parava con tutto il corpo e che poi avrebbe rivinto lo scudetto con la maglia del Napoli. Il libero era Roberto Tricella, nato a Cernusco sul Naviglio come Gaetano Scirea, dal quale aveva sicuramente ereditato un po’ di eleganza. Era arrivato al Verona nel 1979 dopo una complicata militanza nell’Inter all’ombra di Graziano Bini. Uno dei due marcatori era praticamente sempre Silvano Fontolan, fratello maggiore di Davide, mentre accanto a lui veniva impiegato quasi sempre Domenico Volpati, con l’alternativa di Mauro Ferroni. Sugli esterni, a destra l’inesauribile Pierino Fanna, sulla sinistra Luciano Marangon, meglio noto per la sua attività di playboy che per i suoi cross comunque dignitosissimi. A fine stagione, quando sarà chiaro che Marangon a fine contratto ha firmato per l’Inter, Bagnoli lo saluterà in maniera poco diplomatica: “Non mi dispiace molto che sia andata così, eravamo stufi delle sue stupidate”. Con lui andò all’Inter, sempre in scadenza di contratto, anche Fanna.

Era però il centrocampo il vero segreto di quella squadra. Illuminato dalla qualità e dalla lucidità di Antonio Di Gennaro, piovuto lì nel 1981 dopo essere retrocesso con il Perugia in serie B. Nelle mani di Bagnoli (che ha sempre avuto una predilezione per giocatori con quelle caratteristiche e in seguito avrebbe valorizzato Bortolazzi e Manicone), “Dige” divenne un giocatore di livello internazionale, conquistando anche un posto fisso nella Nazionale di Enzo Bearzot, che lo schierò titolare fisso nello sfortunato Mondiale 1986. Sulla sua destra agiva spesso Luciano Bruni, un podista che univa quantità a una buona qualità, ma poteva stare anche Volpati quando Ferroni veniva schierato da marcatore, in alcuni casi anche Luigi Sacchetti, altro giocatore umile di quelli che a Bagnoli sono sempre piaciuti da pazzi. Inamovibile e inimitabile il primo dei due stranieri acquistati nell’estate del 1984 con un’operazione-capolavoro: Hans-Peter Briegel. Fisico da armadio a quattro ante (veniva dal Kaiserslautern), praticamente inossidabile, ex decathleta, nazionale tedesco. Giocava sul centro-sinistra ma in realtà giocava per due, generoso all’inverosimile, potente, preciso, devastante, inarrestabile nelle progressioni, capace in quella stagione di mettere a segno 9 gol.

Se Briegel era un campione vero, altrettanto si può dire dell’altro straniero (all’epoca se ne potevano tesserare due), il danese Preben Elkjaer Larsen, per comodità Elkjaer. Arrivava dal Belgio, dal Lokeren per l’esattezza, ma era un giocatore da grande squadra. Potente come pochi attaccanti, capace di partire in solitaria e di umiliare tre-quattro difensori avversari, in grado di resistere alle cariche e agli spintoni (segnò una rete alla Juventus dopo aver perso una scarpa nella foga), ma anche di creare assist e spazi per il suo compagno d’attacco, “Nanu” Galderisi, che dopo l’inizio promettente alla Juve aveva trovato proprio a Verona la sua vena migliore: 11 reti nell’anno dello scudetto, capocannoniere della squadra e l’ingresso in pianta stabile nel giro della Nazionale dove poi avrebbe portato via il posto a un certo Paolo Rossi. Questo era il gruppo base. Ogni tanto Bagnoli buttava in campo per spezzoni di partita il contropiedista Turchetta per dare respiro e Galderisi e Elkjaer, qualche spezzone portò a casa anche il centrocampista Dario Donà. Per il resto, solo comparse.

Che quel Verona fosse una cosa seria si capì fin dalla prima giornata, quando al Bentegodi rovinò l’esordio in serie A di Diego Maradona, marcato magistralmente da Briegel, asfaltando il Napoli per 3-1. Alla seconda giornata i gialloblù erano in testa da soli dopo il 3-1 sul campo dell’Ascoli e alla quarta giornata lo 0-0 a San Siro contro un’Inter che veniva considerata la grande favorita per lo scudetto fu il primo segnale di grandezza, subito seguito dal 2-0 interno contro la Juventus, la partita di quel famoso gol di Elkjaer a piede nudo. Briegel e Marangon firmarono alla decima giornata la vittoria (2-1) sul campo del Torino, che poi sarebbe arrivato secondo. Solamente all’ultima giornata d’andata arrivò per gli uomini di Bagnoli la prima sconfitta stagionale, 1-2 sul campo dell’Avellino. Ma nonostante il risultato negativo, il Verona quel giorno si laureò campione d’inverno e qui Bagnoli iniziò con un ritornello che si sarebbe portato dietro fino alla fine della stagione: “Dobbiamo avere buoni freni”. Significato: abbiamo fatto troppo, adesso dobbiamo essere capaci di assorbire il contraccolpo quando tutto tornerà alla normalità.

Di quei freni, Bagnoli e il suo Verona non hanno mai avuto bisogno. Il girone di ritorno cominciò con uno 0-0 sul campo del Napoli e con l’aggancio in classifica da parte dell’Inter, ma già dalla partita successiva (Verona-Ascoli 2-0) riprese la vetta della classifica per non abbandonarla mai più. Un solo momento complicato in quei mesi fu il giorno in cui il Torino andò a vendicarsi al Bentegodi battendo i gialloblù per 2-1 con i gol di Aldo Serena e Walter Schachner. A due giornate dalla fine il vantaggio del Verona sul Torino era di 4 punti e il 12 maggio del 1985 i ragazzi di Bagnoli andarono a prendersi il punto che serviva sul campo dell’Atalanta: 1-1 con reti di Perico ed Elkjaer. Al fischio finale Tricella non riusciva a capacitarsi di quello che era successo: “Vorrei che qualcuno mi desse un pizzicotto per rendermi conto che è la realtà e non un sogno”. Garella si attribuì un merito importante, che in realtà aveva ma non era il solo: “Dopo la sconfitta contro il Torino a San Siro contro il Milan al primo minuto ho fatto una parata importante su Hateley. Fosse andato dentro quel pallone sarebbero stati guai, invece con lo 0-0 abbiamo continuato la corsa”. E subito dopo essere stato portato in trionfo dai suoi giocatori, Bagnoli cercava di mantenere un certo equilibrio: “Lo scudetto non era certo nei nostri programmi iniziali, ma a un certo punto abbiamo iniziato a crederci davvero, soprattutto dopo il pareggio nel ritorno sul campo della Juve. Non è facile spiegare cosa sento, è qualcosa che rimane dentro, che non si può spiegare a parole”.

Era un Verona meraviglioso, un meccanismo perfetto che in una stagione non si inceppò quasi mai, basato su valori umani prima ancora che tecnici, creato a immagine e somiglianza del suo condottiero che veniva dalla Bovisa, periferia di Milano, che andava all’allenamento con i mezzi pubblici e che quando si sentiva inseguito da un branco di cani e arrivava davanti a un muro, anziché cercare di scavalcarlo si girava e faceva scappare i cani. Solo così si poteva portare uno scudetto a Verona. Un evento che infatti nei 35 anni successivi non è mai nemmeno stato sognato, se non nei momenti migliori del Chievo.

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