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Pelé e i suoi 80 anni: un mito del calcio che mai potrà essere scalfito

Edson Arantes do Nascimento è il calcio: in campo sapeva fare tutto, coi piedi e con la testa. E quella rivalità con Maradona...

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È difficile rendere omaggio alle persone straordinarie perché non si sa nemmeno da dove cominciare. La frase è dello scrittore svizzero Joel Dicker, ma si addice perfettamente a uno come Pelé. Si comincia dai gol segnati? Si comincia dai titoli vinti? Si comincia dalle leggende che gli girano intorno? Cominciamo dal dato di fatto: ha 80 anni. Li dimostra un po’, ma nemmeno tanto. Li esibisce come medaglie, se mai.

Pelé è il calcio. Affermazione secca e difficilmente controvertibile. Sapeva fare tutto. Usava i piedi come Benvenuto Cellini usava lo scalpello, come Jimi Hendrix usava la chitarra, come Aladino usava la lampada. Destro e sinistro, senza apparenti differenze. Punizioni e rigori, con immensa disinvoltura, senza alcuna emozione. Gol in quantità industriale, assist come se piovesse. Spettacolo, sempre. E poi il colpo di testa, una specialità che normalmente un soggetto di 173 centimetri considera tabù assoluto e che invece in questo caso si è trasformata in leggenda. Chiunque ha ben presente nella memoria visiva lo stacco con cui andò a prendere il pallone nella finale del Mondiale 1970 contro l’Italia. Impressionante per portata e durata, come un colibrì o un elicottero. Fermo lassù come se fosse sopra uno sgabello, ma lo sgabello non c’era. Recentemente in un programma di SporTv il giornalista Sergio Serra Filho ha paragonato le caratteristiche di Pelè con quelle dei più grandi giocatori della storia, arrivando alla conclusione che O Rei è la sintesi di tutti i grandi geni della storia.

LA RIVALITÀ CON DIEGO
Pelé è stato il giocatore più forte della storia del calcio. Sì, no, ni. Forse. O forse no. Per i brasiliani lo è stato, per gli argentini ovviamente no. C’è stato Maradona tra il mito assoluto e l’elevazione a divinità. Pelé o Maradona, Maradona e Pelé. Vent’anni e pochi giorni di differenza, una generazione. Tempi diversi, diversa maniera di interpretare il calcio. Tra brasiliani e argentini, tutto un mondo che dice la sua. Ma non se ne verrà mai a capo. Pelé dal punto di vista dello spettacolo puro è stato sicuramente il numero uno della storia, se non altro perché il Santos, per potergli pagare uno stipendio competitivo, per mettersi al sicuro dagli assalti dei ricchi club europei, si autoinfliggeva lunghe tournèe di pura esibizione in giro per il mondo. Per 45 minuti di Pelé in uno stadio si pagavano cifre astronomiche e il Santos incassava tutto quello che poteva anche a costo di giocare due amichevoli nella stessa giornata. Maradona le esibizioni le intendeva solo per fini benefici, come quando portò la squadra a giocare su un campo agghiacciante ad Acerra, con annesso riscaldamento in mezzo a un parcheggio, per aiutare un bambino che ne aveva bisogno. Per il resto solo competizione pura, rischiando ginocchia, caviglie e garretti, ma sempre con lo scopo finale di vincere. Maradona ha vinto un solo Mondiale ma l’ha vinto da solo. Pelé ne ha vinti tre di cui due da protagonista assoluto, ma nel 1970 probabilmente faceva parte della squadra più forte di tutti i tempi. Pelé o Maradona, Maradona o Pelé, da lì non si scappa. Gli altri, Di Stefano, Cruyff, Eusebio, Ronaldo fenomeno, gli altri fanno da picchetto d’onore insieme agli eroi contemporanei Messi e Cristiano Ronaldo. Pelé e Maradona sono il calcio, ognuno a modo suo e ognuno con le sue peculiarità. La curiosità è che per un breve periodo i due sono stati contemporaneamente in attività  da calciatori professionisti: nel 1977 l’ultimo Pelé stava raccogliendo gli ultimi dollari nei New York Cosmos mentre Dieguito cominciava a incantare con la maglia dell’Argentinos Juniors.

COME GESÙ BAMBINO
Inevitabile che un alone di leggenda permei la nascita di questo fenomeno e il luogo dove tale evento si è realizzato. Non è una grotta ma dà l’idea di essere stata una vera catapecchia 80 anni fa, quella casupola che oggi è stata ristrutturata e trasformata in un museo che si visita in una ventina di minuti e che si può immortalare solo nella memoria visto che all’interno è proibito fotografare. Ci troviamo a Très Coraçoes, una cittadina di circa 80.000 abitanti (80 anni fa erano la metà della metà), a sud dello stato di Minas Gerais, 287 chilometri di distanza dalla capitale Belo Horizonte. Très Coraçoes (fondata nel 1832) vuol dire “Tre Cuori” e l’etimologia di questo nome è controversa. L’ipotesi più accreditata è che derivi dalla cappella costruita in omaggio ai Santissimi Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria. Più dolorosamente romantica la storia di tre ragazze, Jussara, Jacira e Moema, che dopo essersi innamorate di tre mandriani venuti da Goiàs, rimasero sole a struggersi i rispettivi cuori dopo che i tre ragazzotti se n’erano andati. Infine c’è una spiegazione idrografica: il Rio Verde, fiume che bagna la città, forma tre curve sinuose che assomigliano a cuori. Per evitare discussioni etimologiche, Très Coraçoes oggi è semplicemente “Terra do Rei do Futebol”, la terra del re del calcio, concepito da papà Dondinho, appassionato calciatore semiprofessionista, e da mamma Celeste. Il 23 ottobre del 1940, quando in Europa stava per esplodere definitivamente la Seconda Guerra Mondiale, in quella catapecchia nasceva Edson Arantes do Nascimento, futuro re del calcio.

QUEL TRENO PER SAN PAOLO
Un luogo: Baurù. Un nome: Waldemar de Brito. I segni del destino. Baurù (oggi quasi 400.000 abitanti) è la città dello stato di San Paolo in cui la famiglia Arantes do Nascimento si trasferì quando Edson (che non era ancora Pelé) era ancora un bambino e papà Dondinho andò a giocare con il Baurù Atletico Clube. Waldemar de Brito invece era stato un grande attaccante con le maglie di San Paolo, Botafogo, Flamengo, Fluminense, Portuguesa e Palmeiras oltre che San Lorenzo (Argentina), 18 gol in 18 partite con la maglia della Seleçao. Nel 1954 era l’allenatore delle giovanili del Baurù Atletico Clube, squadra nella quale si trovò a disposizione un ragazzo di nome Dico che divenne in breve periodo il suo pupillo. Dico era l’appellativo con cui era conosciuto proprio Edson Arantes do Nascimento. Waldemar de Brito si rese conto velocemente quanto fosse forte quel ragazzo e all’inizio del 1956 gli disse: “Vèstiti bene, domani andiamo a Santos”. Un viaggio interminabile, oltre 450 chilometri su un treno a carbone, ma alla fine di quel lungo percorso c’era la gloria. Edson-Dico venne preso subito dal Santos e alloggiato nel pensionato del club insieme agli altri ragazzi. Il 7 settembre del 1956, a 16 anni ancora da compiere, l’esordio tra i professionisti in un torneo disputato a Santo Andrè, contro il Corinthians (ma non quello famoso, un Corinthians più modesto), esordio con gol per il ragazzo che nel frattempo si era guadagnato il nomignolo di “Gasolina”, benzina,  per la sua energia inesauribile.

CHE STRANO SOPRANNOME
Però per tutta la storia dell’umanità, Pelé sarà Pelé. Un soprannome che al suo legittimo proprietario sta cordialmente sulle scatole, tanto per usare un eufemismo. Ormai lo ascolta da più di 70 anni e ci ha fatto l’abitudine, ma nasce da un atto di bullismo, come lo chiameremmo oggi, o più ancestralmente da quella tendenza che i bambini manifestano da sempre e che li porta a denudare le lacune del prossimo. Il piccolo Edson aveva qualche piccolo difetto di pronuncia. Dondinho aveva un avversario contro cui faceva sempre fatica a segnare, era il portiere Bilè. Edson ne parlava con i suoi amici ma anziché Bilè diceva Pilè. Così io ragazzini lo chiamavano Pilè per farlo arrabbiare. Poi Pilè è diventato Pelé e ha cancellato Dico. Pelé non vuol dire nulla, proprio nulla. È un nome storpiato come in ogni combriccola di ragazzi ne vengono inventati a migliaia. Però questo ha percorso qualche milione di chilometri attraverso lo spazio e il tempo, guadagnandosi un posto nella leggenda.

TRE TITOLI MONDIALI
Sylvio Pirilo era il selezionatore della Nazionale brasiliana nel 1957. Mancavano ancora parecchi decenni all’invenzione di Internet e all’idea di un’informazione globale in tempo reale. Pirilo però si accorse velocemente che nel Santos stava crescendo un fenomeno così lo fece esordire il 7 luglio del 1957, non ancora diciassettenne, contro l’Argentina. Pelè non riuscì a evitare la sconfitta (2-1) ma segnò subito il suo primo gol con la divisa della Seleçao. In breve tempo, Pelè era titolare in Nazionale. Vicente Feola, successore di Pirilo alla guida della Seleçao, lo portò al Mondiale di Svezia. Era il giocatore più giovane che avesse disputato una fase finale della massima manifestazione calcistica e il mondo si inchinò subito a lui: gol decisivo contro il Galles, tripletta contro la Francia, doppietta in finale contro i padroni di casa della Svezia. Il 29 giugno 1958, data della finale, Pelé aveva 17 anni e 249 giorni, era il giocatore più giovane ad avere disputato una finale. Record mai battuto. Molto meno suo il secondo titolo mondiale, quello del 1962 in Cile, un assist per Zagallo nella partita d’esordio e un infortunio molto serio nella seconda gara contro la Cecoslovacchia. Fine del Mondiale, poi vinto dal Brasile con le magie di Garrincha e del suo sostituto Amarildo, che in seguito avremmo ammirato in Italia con le maglie di Milan, Fiorentina e Roma. Poi (con un altrettanto sfortunato Mondiale del 1966 in mezzo) la meravigliosa sinfonia del titolo vinto nel 1970: gol contro la Cecoslovacchia, doppietta contro la Romania, vari assist nel corso delle altre partite e infine gol in finale contro l’Italia, quel pazzesco gol di testa segnato saltando abbondantemente sopra la testa di Tarcisio Burgnich e stampato a imperitura memoria in uno scatto passato alla storia. Attendibile la statistica che gli attribuisce 77 reti nelle 92 partite giocate in maglia verdeoro.

QUALCHE NUMERO
Quanti gol abbia segnato in realtà Pelé non è dato saperlo. Dal 1957 al 1977 non esistevano le certificazioni che oggi ci consentono di tenere aggiornate carriere e curriculum. Statistiche semi-ufficiali della Fifa gliene attribuiscono 1281, ma pare che almeno 500 siano stati segnati in amichevoli e non in competizioni ufficiali. Alcuni conteggi certosini arrivano a 757 marcature ufficiali ma il calcio è arte e amore, non è aritmetica. Così è veramente bello pensare a quel gol numero mille segnato al Maracanà su rigore con la famosa “paradinha”, quel suo modo di fermarsi durante la rincorsa per un’impercettibile frazione di secondo capace di ingannare irreversibilmente il portiere. Era il 19 novembre del 1969 e da quel giorno il mito dei 1000 gol avrebbe accompagnato per sempre il suo portatore. Da professionista, Pelè ha giocato solamente con due maglie, quella del Santos e quella dei New York Cosmos. Nei favolosi anni ’60, sia l’avvocato Agnelli sia Angelo Moratti provarono a portarlo in Italia mostrandogli assegni in bianco su cui lui stesso avrebbe potuto scrivere una cifra a piacere. La tentazione c’era, ma le speranze di Juventus e Inter andarono perdute perché un decreto del Governo brasiliano vietò l’esportazione di quello che in quel momento era il bene più prezioso esistente sul territorio nazionale. Pelè, appunto.

IL TRAMONTO AMERICANO
Ha sempre giocato per passione, ma i soldi nella vita fanno comodo a tutti, così a 35 anni Pelè accettò l’offerta dei New York Cosmos. Era la prima ondata del “soccer”, che stava provando a conquistare gli yankees e a ritagliarsi uno spazio tra basket, football, baseball e hockey su ghiaccio. La NASL (North American Soccer League) adottava regole personalizzate, disegnate su misura per i gusti a stelle e strisce. Rimaneva il gesto tecnico, rimanevano i gol e le parate, ma tutto il resto era diverso.  Pelè arricchì il suo conto corrente per tre stagioni e portò i Cosmos, che erano una specie di Dream Team formato da campioni sul viale del tramonto, al titolo americano nel 1977. Poco dopo diede l’addio praticamente definitivo all’attività agonistica con una partita-tributo (Cosmos-Santos) al Giants Stadium di New York davanti a 75000 spettatori adoranti.

LE LEGGE PELÉ
Cosa abbia fatto Pelé “da grande” non è facile da spiegare. Sostanzialmente è vissuto di rendita, ha sfruttato il fatto di essere Pelé. Ha recitato in “Fuga per la vittoria” insieme a Sylvester Stallone e in diversi altri film tra cui cinque sulla sua vita. C’è stata poi una parentesi politica. Il 1° gennaio 1995 elezione a ministro straordinario per lo sport in Brasile. Ha portato avanti il progetto della cosiddetta “legge Pelé” sulla riforma del professionismo nel Paese. Una legge poi parzialmente modificata e approvata con il nome di “legge Zico”. Nell’aprile del 1998, Pelé si dimise dall’incarico e chiuse la sua carriera politica. Da qui in poi soprattutto bella vita e lavori di rappresentanza per grandi aziende multinazionali.

MATRIMONI E FALLIMENTI
Per due volte nella vita, Pelé ha ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe mai ricevere. Dalla Banca. “Buongiorno, la avvisiamo che il suo conto corrente è completamente prosciugato”. Due volte, durante l’attività agonistica. In entrambi i casi aveva affidato il proprio patrimonio ad amici che sembravano fedeli nei secoli e che invece hanno aspettato il momento giusto per portargli via tutto. Due volte a zero, due volte ha ricominciato da capo. Con rassegnazione. Sono tre le D che hanno caratterizzato la sua vita in questi splendidi 80 anni: Denaro, Dio (è cattolico fortemente credente) e Donne. Ne ha avute tante, quasi tutte bionde. Ne ha sposate tre. La prima, Rosemeri dos Reis Cholbi, gli ha dato tre figli: Edson (che ha fatto il portiere nel Santos e ha dato non pochi problemi nella vita) e due donne, Kelly Cristina e Jennifer. Il matrimonio con Rosemeri è durato dal 1966 al 1978. Dopo una quindicina d’anni di spirito libero e indipendente (molto pubblicizzata la sua storia d’amore nel 1990 con miss Brasile Flavia Cavalcanti), nel 1994 è arrivato il secondo matrimonio con la cantante gospel-religiosa Assiria Nascimento, con altri due figli: Joshua e Celeste. Dopo la separazione da Assiria nel 2008, Pelè ha iniziato nel 2010 la relazione con Marcia Aoki, imprenditrice di origine giapponese di 33 anni più giovane rispetto a lui, sposata nel 2016 a 75 anni d’età.

UN MITO IMMORTALE
Sono passati 43 anni dall’ultima apparizione ufficiale di Pelé su un campo di calcio. Una vita. Poche persone oggi possono raccontare di averlo visto giocare in televisione, pochissimi addirittura dal vivo. Ci restano spezzoni di partite conservati nelle videoteche, ci restano i racconti di chi l’ha affrontato, di chi l’ha marcato, di chi ha avuto la sfortuna di incontrarlo con addosso una maglia da portiere. Sono immagini che nonostante la bassa qualità dei video ci regalano l’idea di un fenomeno assoluto, di un essere umano che con un pallone avrebbe potuto fare qualunque cosa. Non avremo mai una risposta ufficiale alla domanda fatidica: è stato il più grande di tutti i tempi? Possiamo però essere certi che il suo mito non potrà mai essere scalfito. E nel giorno del suo ottantesimo compleanno merita tanti auguri da tutto il mondo.

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