ALPINISMO E ESPLORAZIONE

“Vi racconto mio nonno Walter Bonatti”, una testimonianza inedita e preziosa dal nipote Tommaso Vicario  

Fino a dicembre al Museo Nazionale della Montagna di Torino una mostra dedicata al grande alpinista-esploratore scomparso dieci anni fa.

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“È come se avessi vissuto due vite in una”. Sono parole di Walter Bonatti: alpinista, esploratore, uomo-avventura del quale, alla metà del prossimo mese di settembre, cadono i dieci anni dalla morte. Una ricorrenza che il Museo Nazionale della Montagna di Torino celebra con una mostra allestita grazie all’immenso archivio Bonatti, donato cinque anni fa all’istituzione dalla famiglia di Walter. Ed è proprio a suo nipote Tommaso che il nostro collega Gianluca Gasca - che ce lo ha poi affidato - ha chiesto un ricordo privato, intimo, quasi segreto: il ricordo dell'uomo che... visse due volte.    

Quella di Walter Bonatti è una figura trasversale al tempo e alla passione. Dall’alpinismo all’esplorazione del mondo orizzontale il “re delle Alpi” ha saputo conquistare, entrando nei cuori delle persone. Le sue immagini a colori, pubblicate sulle pagine patinate di Epoca, hanno offerto per anni l’opportunità di viaggiare e godere di territori incontaminati quando ancora non c’erano televisioni e grandi produzioni documentaristiche a occuparsene. Ha incarnato, e incarna tutt’ora, l’immagine di un moderno avventuriero, quasi un super eroe capace di prodezze agli altri proibite.

Ad animare questa sua spinta verso l’ignoto è la curiosità, quella per il mondo naturale che emerge forte anche nella quotidianità e in tutto il corso della sua vita. “È come se avessi vissuto due vite in una” rispondeva ironico Bonatti a Fabio Fazio anni fa, ma è così. Poche persone hanno avuto la fortuna di vivere con un’intensità paragonabile alla sua, quella che oggi possiamo scoprire grazie all’inedita mostra dedicatagli dal Museo Nazionale della Montagna-Duca degli Abruzzi di Torino. Ha inaugurato lo scorso 22 giugno, giorno del 91esimo compleanno dello scalatore, e si chiama “Stati di grazia. Un’avventura ai confini dell’uomo”. L’esposizione, visitabile fino a dicembre, racconta un Bonatti diverso da quello che ci siamo abituati a conoscere nel corso degli anni. La mostra apre con le sue mani grosse e nodose, da alpinista. Da un lato sono poggiate sulla gelida parete nord del Cervino, dove Walter ha chiuso la sua carriera alpinistica con una splendida nuova via aperta in solitaria, dall’altra parte sono a terra, a evidenziare le tracce lasciate dagli artigli della tigre di Sumatra. Un parallelismo tra lo scalatore e l’esploratore dell’orizzontale che ci accompagna lungo tutto questo originale  percorso, che segna anche l’apertura agli studiosi e al pubblico generico del grande archivio Bonatti, donato nel 2016 all’istituzione torinese dai parenti dello stesso. Una mole di materiale immensa contenente oltre 150mila fotografie, articoli di giornale, libri, manoscritti, attrezzatura e ricordi intimi della vita di un uomo senza tempo. La cui memoria ci arriva oggi grazie alla testimonianza di Tommaso Vicario, figlio di Francesco (regista televisivo come il fratello Stefano) e quindi nipote di Rossana Podestà e di Walter Bonatti, che illustriamo con le immagini pubblicate per gentile concessione di Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna - CAI Torino.

Tommaso, cosa vi ha spinti a donare l’archivio al Museo Montagna?

Prima di prendere questa decisione abbiamo valutato diverse opportunità, sia con enti locali che privati. La scelta del Museo Montagna è arrivata per due ragioni. In primis perché rappresenta le molte migliaia di appassionati che fanno parte del Club Alpino Italiano e ci piace l’idea di questa restituzione ai soci di un personaggio che, dopo anni di frizioni, ha visto chiarire le posizioni con rettifiche ufficiali da parte del sodalizio. In secondo luogo perché il CAI ha tutte le competenze e le strutture per poter garantire la corretta fruizione dei materiali, ma soprattutto la sua conservazione sul lungo periodo. 

Il Walter Bonatti che ha conosciuto per lei è stato un nonno acquisito, una figura strana che sembra discostarsi dall’eroico Bonatti. Com’era nel privato?

Per me, come per tutti i nipoti, è stato proprio nostro nonno. Per quanto acquisito, siamo cresciuti con lui. All’inizio era più distante, ci ha messo un attimo a rompere il ghiaccio. Era un nonno molto attivo, faceva ancora moltissime cose. Ci ha portati in montagna a scalare, abbiamo viaggiato insieme, ci ascoltava suonare la chitarra e ci ha accompagnati nei primi passi nel mondo.

Era molto legato a Walter?

Ho letto tutti i suoi libri e, indirettamente, ha stimolato le mie scelte negli studi. Durante il periodo universitario mi rendevo conto di avere in famiglia un antropologo vero e proprio, con anche una marcia in più rispetto agli studiosi accademici. Nelle sue esperienze non si è limitato all’osservazione dei popoli incontrati, ma si è sempre posto sullo stesso piano con la voglia di provare le stesse esperienze.

Per farlo bisognava essere Bonatti…

Mi viene in mente il suo incontro con i Pigmei, la sua immersione nella loro quotidianità. Correre dietro ai Pigmei richiede un certo allenamento, non solo voglia di provare sulla propria pelle l’immersione in una nuova dimensione.

L’immagine di Bonatti è strettamente legata al concetto di “verità”. Lei stesso, in una intervista di qualche anno fa disse “Bonatti aveva valori che lo inducevano sempre a cercare la verità in ogni cosa che faceva”. Come ha vissuto questa sua caratteristica?

Sicuramente è stata una delle sue caratteristiche principali, e anche una di quelle che mi ha portato a sviluppare una grande stima nei suoi confronti. La ricerca della verità sulla questione del K2 è stata la massima espressione di questa sua necessità, che non era autocelebrazione. Per Walter la verità aveva un’importanza che in pochi le danno. Anche nel quotidiano era un refrattario al compromesso, uno che ha sempre cercato di guardare le cose per come sono realmente.

Era un professionista, ma dai suoi racconti traspare anche l’immagine di una persona precisa e meticolosa. Lo era per davvero?

Era estremamente meticoloso, quasi maniacale. Una caratteristica che ha acquisito in montagna, dove spostare un’impugnatura di due millimetri o mettere un chiodo fa la differenza tra arrivare vivo fino in fondo oppure no. La meticolosità era la chiave dei suoi successi, in montagna come nella vita di tutti i giorni. È famoso il racconto del caffè: nessuno lo faceva come lui. Aveva un suo modo rituale, che noi in famiglia riconoscevamo e su cui scherzavamo sempre. Walter faceva poche cose, ma cercava di farle bene. Teneva molto anche al suo stile narrativo, qualità che ha reso il racconto della sua vita così perfetto.

In questo stile narrativo rientra anche la scelta di non farsi sponsorizzare? Una ricerca di libertà senza compromessi?

Questa è un’altra caratteristica che lo ha contraddistinto. Walter non voleva essere influenzato, voleva più libertà possibile. Certo, quando si è trovato sotto contratto con Mondadori qualche compromesso ha dovuto accettarlo. Un conto è farlo con l’editore, un altro con lo sponsor. A Walter non è mai piaciuta l’idea di usare la sua immagine per vendere. Voleva rimanere puro.

Una scelta calcolata?

Penso dettata dall’istinto. Semplicemente non voleva usare se stesso per vendere un prodotto. Riteneva che le sue gesta fossero più preziose. Poi, qualche piccola collaborazione è esistita, ma tutte cose molto fugaci.

Uscendo dal personaggio mediatico. L’amore tra lui e Rossana è stato molto intenso, quale rapporto li legava?

Si amavano molto. Un amore profondo, autentico, nato in età matura. Ognuno dei due aveva le sue diversità, le sue caratteristiche. Due caratteri molto forti che in qualche modo si sono compensati a vicenda. Rossana l’ha aiutato a smussare alcuni aspetti che lo rendevano di difficile gestione in società, lui le ha dato molti di quei sogni che la affascinavano fin da bambina, esperienze che ha potuto vivere sulla propria pelle. Erano uno yin e uno yang che combaciavano perfettamente.

Walter aveva un’attenzione maniacale per la vita, un cuore delicato che va oltre quello che traspare dai racconti di Epoca…

Ricordo una volta in cui ha tentato di rianimare un passerotto. Un atteggiamento particolare, quasi ingenuo, ma è questo lato “infantile” di Walter che lo rende speciale. Indirettamente risponde a quella connessione con il mondo naturale sperimentata sulla propria pelle, che ha saputo trasferire nella quotidianità. Walter ha sentito l’afflato della natura, in tutte le sue forme. Da qui deriva l’estremo valore che dava a ogni forma di vita. Quasi un approccio buddista, anche se inconsapevole.

Un aspetto di Walter che è emerso solo dopo la sua scomparsa…

Lui aveva la sua narrazione delle cose. Oggi grazie all’archivio è possibile immaginare nuove letture, collegamenti concessi dal suo modo di affrontare le esperienze nella natura. Walter ci parla di un ritorno a un contatto tra uomo e ambiente, a una giusta relazione. Ci sono aspetti della sua vita che possono essere ripresi e trasposti nella quotidianità delle persone. Magari lui non è riuscito a far passare questo messaggio fino in fondo, d’altronde era un super eroe. Oggi una lettura esterna può permettere nuove visioni. Bisogna però fare attenzione a non cadere nell’errore di mitizzarlo troppo. Walter era un uomo, con pregi e difetti. E penso che siano proprio i difetti ad averlo reso amato, perché lo hanno avvicinato all’uomo comune.

Cosa le rimane oggi di Walter?

Avendolo vissuto in prima persona mi rimangono sensazioni epidermiche, come l’energia che emanava. L’ispirazione delle chiacchierate attorno al camino, la passione per i viaggi e l’esplorazione, per il territorio che ti circonda. Rimane la voglia di andare, di partire, non appena se ne ha l’opportunità. Sensazioni che porto vive con me.

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