Logo SportMediaset
In evidenza

Seguici anche su

ALPINISMO

Simone Moro e gli ottomila al chiodo: "Avventura-Himalaya? No, turismo d'alta quota!"

L'alpinista-esploratore bergamasco sta mettendo a punto un nuovo tentativo invernale sul Manaslu

di Stefano Gatti
01 Ago 2025 - 14:44
 © Archivio Simone Moro/Oswald Rodrigo Pereira

© Archivio Simone Moro/Oswald Rodrigo Pereira

La parete nord di Milano si trova a metà strada tra Piazza del Duomo e il Castello Sforzesco e Simone Moro ci si arrampica sopra con lo stile leggero che contraddistingue i suoi progetti alpinistici ed esploratici. Anche quando, come in questa occasione, si tratta "solo" di raccontare e raccontarsi allo store milanese The North Face di via Orefici, per la presentazione ad una platea selezionata della sua più recente "fatica letteraria" per Rizzoli: "Gli ottomila al chiodo", trent'anni (e oltre) di alpinismo himalayano riassunti in un titolo che il cinquantasettenne alpinista, esploratore e conferenziere bergamasco non si è fatto pregare per spiegare nel corso dell'intervista da lui concessa a Sportmediaset.

© Rizzoli

© Rizzoli

Una conversazione che ha spaziato su temi diversi: dall'esperienza personale di Simone sulle montagne più alte del pianeta alla storia contemporanea delle scalate in Himalaya e Kararorum, con uno sguardo critico e disincantato al tempo stesso sull'evoluzione-involuzione del movimento stesso, prossimo a ridursi a "turismo d'alta quota", salvo rare e tanto più apprezzabili eccezioni. Iniziamo proprio da qui.

© Archivio Simone Moro/Oswald Rodrigo Pereira

© Archivio Simone Moro/Oswald Rodrigo Pereira

Sportmediaset: Simone, tra i passaggi che mi hanno incuriosito di più nel tuo ultimo libro c’è quello in cui parli dell’alpinismo di ieri e di quello di oggi (e soprattutto di domani…) come di due mondi diversi, più che di due epoche diverse. Mi puoi spiegare in che senso?

Simone: Sono mondi diversi perché oggi esistono dei fenomeni che una volta non si pensava neppure potessero esistere. È cambiata proprio la community, la platea. Ti faccio questo esempio: oggi al campo base degli ottomila himalayani non sanno chi è Bonatti, non sanno chi è Cassin, non sanno chi è Bonington, non sanno chi è Tomaz Humar. Conoscono solo Messner - ma nemmeno tutti - e poi… me! Non perché sono bravo come Messner, no, ma perché io sono lì in mezzo a loro e magari vado a trarli in slavo con l’elicottero e quindi mi vedono e dicono: "Ah, you are the legend”. È come nel mondo del tennis dove magari tutti sanno chi è Sinner ma non sanno chi sono stati Borg, McEnroe oppure Sampras. Non è nemmeno questione di evoluzione o involuzione. Sembrano veramente due mondi distinti, dove non è più necessario conoscere la storia dell’alpinismo, non è più necessario neanche conoscere la montagna. Io ho portato con il mio elicottero una alpinista - della quale non ti faccio il nome - che ha poi fatto tutti i quattordici ottomila e anche altre scalate. L’ho portata verso il Makalu che ancora mancava alla sua collezione. Quando siamo arrivati in zona la guardo e lei non mi dice niente, la guardo di nuovo e lei ancora non mi dice niente. Allora, siccome eravamo a seimila metri e lo stavamo oltrepassando, gliel’ho indicato ("Makalu!") e lei per tutta risposta “Aaah, really?”. "Ma come really, sai almeno dove passa la via di salita?" E lei di rimando: "Mmmmm, in realtà no, non conosco bene questa zona". Non ne aveva idea! È questo che intendo: sono proprio mondi diversi. Oggi quello dell’alpinismo, o meglio degli ottomila, per due mesi all’anno è formato da una community di clienti che non ritengono necessario conoscere la storia, l’ambiente, la preparazione, anche solo le vie di salita. Di fatto una community non autosufficiente e che non ha neppure la preparazione per esserlo. Intendiamoci: si tratta di un’attività lecita, che da un lato io favorisco anche come fornitore di un servizio con il mio elicottero, sarei matto a non ammetterlo, che però rappresenta la chiara e manifesta evidenza che quello è turismo d’alta quota, non è avventura ed esplorazione. È come paragonare uno che si immerge a cento metri di profondità e uno che fa snorkeling. Sono entrambi sotto il pelo dell'acqua ma non fanno parte dello stesso mondo: uno è quello dei vacanzieri con il canotto e le conchiglie, l’altro è quello dei sommozzatori.

© Archivio Simone Moro

© Archivio Simone Moro

Sportmediaset: Gli alpinisti di professione, le guide e i soccorritori come te possono arginare in qualche modo questa deriva e indirizzare l’attività alpinistica sulle montagne più alte del pianeta o si tratta di due mondi destinati a non comunicare mai?

Simone: No, anzi al contrario l’unica cosa che possono fare e che stanno facendo è sperare che ci siano sempre più turisti d’alta quota perché le guide, che sono oggi per il novantotto per cento nepalesi (molti delle quali anche guide UIAGM, quindi guide titolate) sono contente così, anzi sperano che i clienti aumentino ancora, perché ciò garantisce benessere a loro e alle loro famiglie. In percentuale il numero degli incidenti si sta mantenendo basso: stiamo parlando di mille persone all'anno che tentano l’Everest (o meglio che hanno il permesso di scalata) e di cinquecento che ci provano, trecentoottanta-quattrocento delle quali arrivano in cima, con due-tre-quattro morti. Stiamo parlando di una percentuale bassa rispetto a ciò che ci si potrebbe aspettare: moralmente inaccettabile, però bassa. Questo si spiega con la predisposizione di una macchina logistica molto efficace che permette a tanti di provarci. Attenzione però: è come quelli che vanno a fare il safari in Africa a vedere i leoni dal fuoristrada, protetti da una gabbia metallica. Così per il turismo degli ottomila. Si va all’Everest (buona parte del turismo d’alta quota si concentra lì, anche se non tutto) ingabbiati in una logistica che cerca di proteggerti. Con la differenza che la jeep con la gabbia ti protegge davvero, la logistica in Himalaya invece ti facilita molto le cose (perché le bombole d’ossigeno sono un bell’aiuto) ma se viene ancora una bufera come nel 1996 o qualcosa va storto, tu sei completamente non autosufficiente.

© Archivio Simone Moro

© Archivio Simone Moro

Sportmediaset: A proposito dell’Everest, nelle pagine de “Gli ottomila al chiodo” anticipi senza però sbandierarlo troppo un nuovo progetto personale.

Simone: Sì, vorrei tornare all’Everest perché in vetta sono già stato quattro volte ma per quattro differenti motivi - una volta per mezz’ora, una volta per due ore - ho usato ossigeno, magari di notte, e non ne ho fatto mistero. Avrei potuto anche non dirlo, nessuno lo avrebbe mai scoperto ma questo non fa parte del mio carattere. Io cerco l’esplorazione e ho capito che quei momenti di debolezza, seppur giustificati, non mi hanno permesso di fare l’Everest come avrei voluto. È per quello che voglio tornare lassù ed è palese che lo farò integralmente senza ossigeno. Però lo sto pensando in un modo particolare e penso di attendere ancora due o tre anni.

© Archivio Simone Moro

© Archivio Simone Moro

Sportmediaset: La tua priorità quindi resta al momento il Manaslu in invernale?

Simone: Sì sì, riparto più avanti quest’anno e cambio ancora un po’ registro. Ricordiamoci che quando il Manaslu è stato fatto in invernale tre anni fa da Alex Txikon e dai suoi compagni, lo hanno fatto tutti con ossigeno, a parte proprio Alex che però era preceduto da sei sherpa che hanno installato le corde fisse, quindi qualcosa di diverso dalla mia idea. Io lo voglio fare come ho fatto le mie altre invernali: due o tre persone, niente ossigeno, niente corde fisse. Diversamente anch’io mi piegherei al motto... “il fine giustifica i mezzi". Io non voglio arrivare in cima per forza: voglio arrivarci come voglio io. L’idea è di andare là già in autunno, salirlo in autunno, vedere dove sono i passaggi critici, come è messo, e poi mantenere l’acclimatamento e già il 21 dicembre essere al campo base, già acclimatato. Nei tentativi precedenti invece mi acclimatavo prima e poi arrivavo al campo base che era già metà gennaio ed era ormai troppo tardi.

© The North Face

© The North Face

Sportmediaset: A cosa si riferisce il titolo “Gli ottomila al chiodo”?

Simone: Ovviamente non sono io che ho appeso al chiodo gli ottomila. È un titolo provocatorio: l’ho pensato una volta che ero fermo con il motorino al semaforo a Kathmandu. Ho pensato che quel titolo avrebbe scatenato la curiosità dei miei lettori e questo per fini di marketing ma in realtà ad essere appesi al chiodo sono gli ottomila come li abbiamo sempre conosciuti noi e come li abbiamo sempre affrontati. Quel tipo di ottomila oggi non esiste più perché oggi i protagonisti sono altri. Chi vuole fare esplorazione sugli ottomila o va d’inverno o va in altre stagioni, come fece Messner nel 1980 quando realizzò la prima e unica vera solitaria dell’Everest ad agosto, in pieno monsone, oppure deve andare per vie nuove come hanno fatto recentemente Denis Urubko e anche altri. Al chiodo sono appesi gli ottomila senza ossigeno e per vie normali, perché lì non c’è proprio più spazio, sei letteralmente in coda. In più a proposito del titolo c’è una metafora. Molte volte quando qualcuno cerca di sottrarsi ad un confronto si dice: guarda che ti prendo e ti appendo con un chiodo al muro, così ci guardiamo in faccia e parliamo. Oppure si dice: ti appendo all’attaccapanni. Con questo libro io intendo parlare a questi nuovi protagonisti-turisti d’alta quota ma senza offenderli o mortificarli. Ho solo detto loro: guarda che quello che stai facendo ha portato alla formazione delle guide locali, creando ricchezza per il Nepal e tanti benefici economici ma non è esplorazione, perché l’esplorazione è quella... della pagina dopo. Infatti io scrivo: mentre guide e clienti sono in coda, su un’altra montagna c’è un alpinista che apre una via nuova. Ho raccontato tante salite. Non volevo scrivere un libro polemico e non l’ho fatto. È solo un libro che vuole fare chiarezza su cosa è una cosa e cos’è un’altra e affermare che c’è spazio per entrambe

© Archivio Simone Moro

© Archivio Simone Moro

Sportmediaset: Da questo punto di vista la cosiddetta "collezione dei quattordici ottomila" ha forse fatto un po' il suo tempo?  

Simone: Come ho scritto ne “Gli Ottomila al chiodo”, la collezione è una grande soddisfazione personale ma nulla più di questo. All’esplorazione non porta niente. I collezionisti degli ottomila sono una cinquantina ma non lo resteranno per molto: nei prossimi quattro-cinque anni diventeranno cento-centocinquanta perché - anche questo l’ho scritto - nei pacchetti proposti dalle agenzie commerciali c’è anche quello della collezione dei quattordici ottomila nell’arco di tre anni, o meglio di tre stagioni di scalate. Dobbiamo aspettarci che quello che hanno fatto fin qui in cinquanta si appresti a diventare turismo d’alta quota.  

© The North Face

© The North Face

Sportmediaset: Gli Ottomila al chiodo ripercorre in modo in modo praticamente integrale la storia contemporanea dell’alpinismo in Himalaya e Karakorum, sovrapponibile ai trent’anni e oltre della tua attività laggiù, anzi lassù. Sentivi che era giunto il momento di tirare le somme (tue, ma non solo) o al tuo bilancio al quale manca ancora qualcosa, una soddisfazione che ti vuoi levare, al di là dell’Everest e del Manaslu invernale?

Simone: Ho molti più progetti degli anni che mi restano da vivere al top l’Himalaya. Ne ho veramente ancora tanti, anche a livello di vie nuove. Non voglio inseguirli tutti perché l'evoluzione personale mi porta a fare selezione e a capire che esiste un momento nel quale dovrò smettere di vivere questi sogni e dedicarmi ad altri. Raccontando questi trent’anni di alpinismo intendo affermare che ho vissuto trentatré anni di Himalaya (a partire del 1992, più di settanta spedizioni) e che in questo spazio temporale non è cambiato solo Simone Moro, non sono cambiate solo le montagne e i ghiacciai, per tornare all'inizio della nostra conversazione è cambiata veramente la community alpinistica. Ho voluto raccontare, anche a me stesso, che dopo trentatré anni ho ancora un sacco di sogni, ma ora si tratta di selezionarne solo qualcuno. Per quattro o cinque anni penso di poter tenere l’asticella alta in Himalaya. Poi servirà sarà una… bella botta di saggezza per chiudere i giochi e magari tornare a fare un alpinismo più basso. Vediamo se eventualmente anche meno performante ma comunque ad alta quota. Di sicuro non mi vedo a fare la guida sugli ottomila!  

© Gianmarco Dodesini Valsecchi

© Gianmarco Dodesini Valsecchi

Commenti (0)

Disclaimer
Inizia la discussione
0/300 caratteri