A due anni dalla scomparsa dell’alpinista laziale e del suo compagno di cordata Tom Ballard, la moglie Daniela ci ha concesso questa intervista esclusiva.
di Stefano Gatti
“Un passo alla volta e con la squadra giusta si possono raggiungere vette incredibili”. È questo, secondo noi, uno dei passaggi più profondi e significativi dell’intervista che Daniela Nardi ci ha gentilmente rilasciato in occasione del secondo anniversario dell’incidente che – sullo Sperone Mummery del Nanga Parbat – alla fine di febbraio del 2019 è costato la vita al marito Daniele ed al suo compagno di cordata, il britannico Tom Ballard.
Daniele e Tom sono ancora là, sulla nona vetta del pianeta, per volontà delle loro famiglie. Con la collaborazione del collega Gian Luca Gasca abbiamo raggiunto Daniela per chiederle qualcosa di più di un semplice ricordo del marito: la possibilità, invece, di portarci insieme a lei alla scoperta dell’uomo Daniele Nardi. Al di là (anzi, più in alto) del suo mestiere di alpinista. I suoi sogni quindi, certo, ma soprattutto gli ideali ed i progetti. Essenzialmente, l’opportunità di avvicinarlo con la quiete faticosamente portata dal tempo che trascorre ma più ancora con tenerezza e delicatezza: quelle di Daniela (e del loro figlio Mattia) molto prima e molto più che le nostre.
Daniela, sono trascorsi due anni dall’incidente sullo Sperone Mummery del Nanga Parbat. A ventiquattro mesi di distanza, quando pensa a Daniele, quando si rivolge a lui, in che termini lo fa?
Sì, sono passati due anni dall’incidente ma sembra ancora tutto così recente, mi trovo praticamente ogni giorno a pensare a lui e spesso mi trovo a rivolgermi a lui come se fosse ancora qui. Sento la sua presenza e la sua guida ancora in maniera prepotente ma sempre con una sorta di serenità, non provo sentimenti di angoscia. Questa pace sono certa che origini dal fatto che, grazie a lui, non abbiamo lasciato cicli aperti. Daniele voleva sempre affrontare i problemi, non cercava mai di nasconderli. Avevamo molti progetti insieme sia privati che professionali, quindi ogni volta che ho una scelta importante o difficile da prendere un pensiero va a lui. Quello che mi torna sempre indietro è un pensiero positivo e un desiderio forte di non mollare. Con la sua assenza ho capito ancora di più che cosa vuol dire credere nei propri sogni ed impegnarsi ogni giorno per poterli realizzare. Perché Daniele non si metteva mai in una posizione di effetto quanto di azione, non lasciava mai nulla al caso, era un curioso e questa curiosità lo portava a studiare molto.
Quali sono oggi i suoi sentimenti nei confronti dell’alpinismo, di quello praticato da Daniele sulle montagne più alte della Terra? È l’attività che le ha tolto un compagno di vita ed il padre di suo figlio oppure uno sport senza il quale Daniele non sarebbe stato Daniele e quindi prevale l’accettazione?
Senza ombra di dubbio accettazione! Da quando ci siamo conosciuti nel 2006, pur non conoscendo nulla di alpinismo non ho mai intralciato il suo percorso. Siamo nati nel Centro Italia e dalle nostre parti quando si sente parlare di montagna al massimo si pensa agli impianti di risalita per poter poi scendere con gli sci. Con il tempo ho imparato a conoscere il suo mondo e ad apprezzarlo. È un mondo affascinante, ricco di sensazioni, emozioni ed allo stesso tempo molto duro. Penso che emozioni di quel tipo - per essere comprese fino in fondo - hanno bisogno di essere vissute. Eppure Daniele, grazie alle sue grandi capacità comunicative, era in grado di far rivivere almeno in parte quelle emozioni a chiunque lo ascoltasse. Per lui l’alpinismo era prima di tutto passione, energia vitale. Come avrei mai potuto pretendere di allontanarlo da quello che rendeva viva una parte di sé? Abbiamo sempre pensato che per poter stare bene insieme si debba prima di tutto stare bene con se stessi, l’altro è semplicemente una cornice di un’opera d’arte che a seconda dei momenti può contenere, sostenere e rendere tutto più bello. Se gli avessi chiesto di allontanarsi dall’alpinismo… semplicemente avrei distrutto l’opera d’arte. Immaginate un quadro bellissimo con una cornice bellissima ma con uno scarabocchio proprio sulla parte più bella.
L’arrivo di nostro figlio è stato programmato: Daniele dopo la salita al Nanga avrebbe cambiato radicalmente la sua vita. Non solo per l’arrivo di Mattia ma perché negli anni aveva iniziato un progetto di formazione con il quale - attraverso le sue esperienze di vita - aiutare gli altri ad andare oltre i propri limiti. Anche quelli più banali, che però spesso ci bloccano e fanno sì che non riusciamo a diventare quell’opera d’arte cui facevo cenno sopra.
Sinceramente sul fronte alpinistico sto rimanendo decisamente periferica, non ho nessuna voglia di confrontarmi con un mondo spesso pieno di ombre. Conosco lo spirito con cui Daniele scalava le montagne: alla base di tutto c’erano il rispetto per la montagna e soprattutto quello per gli altri. Daniele cercava sponsor per scalare, non ha mai scalato per gli sponsor. Sono due cose completamente diverse!!! Ha sempre dato priorità alla vita, non aveva assolutamente in mente il concetto della vetta a tutti i costi.
Siamo stati molto attaccati per la scelta di affrontare la spedizione nonostante la presenza di Mattia. Oltre a non essere l’unico alpinista ad avere figli, quando penso a questa cosa il sorriso inevitabilmente mi affiora sulle labbra. Potrei fare una lista infinita di cose che non si dovrebbero fare quando arriva un figlio: la sigaretta di troppo, il limite di velocità sorpassato. Cose molto, molto semplici, insomma. Per Daniele l'alpinismo innanzitutto era il suo lavoro. Svolto sempre con molta attenzione e studio per limitare il più possibile i rischi. In più penso che grazie a persone come lui oggi possiamo prendere un aereo e qui mi fermo. Se c’è chi vuole continuare a criticare lo faccia pure, non avevo e non ho bisogno di piacere a tutti. Se devo essere sincera, continuano ad arrivarmi centinaia e centinaia di messaggi di apprezzamento per Daniele, da parte di persone che lo ringraziano per averli ispirati e motivati. Mattia sicuramente non avrà un papà in carne ed ossa, però ha una eredità morale che spesso non ha nulla a che fare con un padre sempre presente fisicamente ma che si limita a questo. In più ha una mamma che si ritiene molto forte e che lo accompagnerà verso la comprensione di tutto ciò che è accaduto. Paradossalmente il problema sarà evitare che si senta sopraffatto da questa figura estremamente significativa, visto l’enorme apprezzamento e le tantissime testimonianze di stima che ci arrivano ogni giorno e che - se devo essere sincera - continuano ad aumentare. Evidentemente la gente sta iniziando a capire e chissà, forse sarà l’inizio anche di un nuovo alpinismo.
Ha un ricordo particolare della carriera di Daniele sulle montagne più alte del pianeta? Quale il successo più significativo e quale la delusione più cocente?
Se devo pensare ad un ricordo particolare della carriera di Daniele... me ne vengono in mente due. Il primo, la morte di Stefano Zavka sul K2 nel 2007, che devastò Daniele. Il secondo è la questione della spedizione del 2016 al Nanga Parbat. Ricordo la sua sensazione di completo smarrimento non riuscendo a capire cosa stesse succedendo. La delusione più cocente è legata a questa spedizione: assolutamente non per la vetta mancata quanto per la violazione di principi in cui Daniele credeva fortemente. Quando si legava in cordata - sia nella vita che in montagna - Daniele stringeva un nodo molto forte.
Il successo più significativo è stato la scalata del Bhagirathi (Himalaya indiano, ndr) nel 2011 con Roberto Delle Monache. Ecco, Roberto era veramente un compagno di cordata per Daniele e grazie alla fiducia reciproca sono riusciti ad aprire una via che è valsa loro il premio Paolo Consiglio del Club Alpino Accademico Italiano: il più importante riconoscimento all’alpinismo d’esplorazione nostrano.
Cosa rappresentava esattamente per Daniele lo Sperone Mummery, il gigantesco “naso” di roccia e ghiaccio incastonato al centro del versante Diamir (quello rivolto a nordovest) della montagna?
Per Daniele il Nanga tramite lo Sperone Mummery era un punto di arrivo ed allo stesso tempo un nuovo inizio. Lui non rincorreva la scalata degli “ottomila”, tantomeno i primati invernali su di essi. Lui al “Mummery” ci è arrivato in maniera graduale, tramite lo studio meticoloso della via, dei materiali e della preparazione fisica. Una via diretta alla vetta, in inverno ed in stile alpino: semplicemente il suo sogno. Purtroppo qualcosa è andato storto. Ci tengo a precisare, per chi non avesse ancora le idee chiare a causa delle informazioni frammentarie e confuse fornite nelle settimane dei soccorsi, che Daniele e Tom erano in fase di discesa. E se lo stavano facendo di notte il motivo doveva essere molto serio. Meglio dire vitale, altrimenti non avrebbero mai lasciato la tenda in piena notte.
Che tipo di contatti ha avuto - in questi due anni - con il mondo dell’alpinismo, con i colleghi e con i compagni di cordata di Daniele?
Questa è una bella domanda che mette al centro le relazioni, elemento al quale sia io che Daniele abbiamo sempre dato molta importanza. Approfitto per ringraziare pubblicamente Agostino Da Polenza per il suo grande sostegno ai soccorsi. Non essendo alpinista sicuramente non sono conosciuta dai colleghi di Daniele ma devo dire che chi ha avuto il piacere di entrare in contatto con me ha trovato il modo di farlo. Ringrazio Elisabeth Revol per avermi fatto sentire la sua vicinanza e Denis Urubko. Mi sono stati vicino anche Michele Cucchi, Roberto Delle Monache, Simone Origone, Tarcisio Bellò e Danilo Callegari: tutte persone che Daniele apprezzava e stimava moltissimo.
Ha seguito le vicende della "campagna" di spedizioni invernali che sta per concludersi (una stagione storica ma segnata da diversi incidenti) sugli “ottomila” e sul K2 in particolare?
Ho sempre cercato di rimanere periferica al mondo alpinistico, mi piace però molto osservare le varie dinamiche. Faccio i miei complimenti alla squadra dei nepalesi: hanno dimostrato un grande spirito di squadra. Per quanto riguarda la parte tragica, ovviamente ne sono molto dispiaciuta.
Cosa significa per lei sapere che Daniele è rimasto (insieme a Tom) sulla montagna, pensarlo lassù?
Se quello che vuole sapere è se avrei voluto riportarlo in Italia la risposta è no. Daniele per me è molto più di un corpo e non ho la necessità di andare a cercarlo in un cimitero: questo pensiero non mi piace neanche un po'. Voglio continuare a respirarlo nell’aria ed a sentirlo al mio fianco. Si trova sicuramente nel posto migliore in cui poter stare. Altrettanto sicuramente, non appena Mattia sarà più grande andremo insieme al campo base del Nanga Parbat.
Lei aveva avuto occasione di conoscere personalmente Tom Ballard?
Certo, l’avevo incontrato una volta a casa sua, dopo che Tom - tramite la sua manager - aveva manifestato interesse a mettersi in contatto con Daniele, e dopo aver letto il progetto triennale alpinistico di Daniele avevano deciso di partire insieme per il Link Sar (un “settemila” del Karakoram, ndr). L’ultima volta che l’ho visto è stato tre mesi prima della partenza, il giorno in cui è nato Mattia perché, durante la notte del mio travaglio, Tom era in viaggio per venire da noi e discutere le ultime cose con Daniele sui preparativi per il “Nanga”. Mi ha fatto molto piacere vederlo ed era visibilmente molto emozionato. Era anche lui un animo buono.
La montagna fa ancora parte della sua vita? E se sì, in che forma?
La montagna continua ancora a far parte della mia vita sempre solo a livello amatoriale. Mi manca sicuramente poter fare le esperienze che Daniele ogni tanto mi regalava.
Come parla oggi di Daniele a suo figlio Mattia? Come gliene parlerà quando sarà un po’ più cresciuto?
Mattia è stato da subito partecipe di tutto, ha vissuto i giorni dei soccorsi con me, a soli sei mesi. Gli ho sempre parlato e raccontato tutto e continuo a farlo senza nascondere nulla: è la mia forza ed io sono la sua. Ogni mattina quando si sveglia vediamo una foto di cui Daniele fece realizzare un ingrandimento e sulla quale fece scrivere una frase:
“Un passo alla volta e con la squadra giusta si possono raggiungere vette incredibili”.
Questa frase è la nostra energia e noi siamo una squadra.
Daniele non chiamatelo alpinista, sarebbe decisamente troppo riduttivo. Le domande che mi sono state fatte sono oggettivamente legate all’ambiente alpinistico ma Daniele era molto molto di più. L’alpinismo era solo una parte - e neanche la più grande - del suo essere. Quando parlo a Mattia di suo papà gli racconto quanto tenesse a noi, quanto si sia dedicato al sociale e soprattutto ai diritti umani, per lasciare anche a lui un mondo migliore. Si occupava di formazione aziendale, di testimonianze sportive, studiava molto ed era un padre e marito molto attento che - anche quando era stanco per i continui viaggi - era sempre lì a supportarci e sostenerci.
Per finire, parafrasando il titolo del libro di Daniele, crede che lui abbia trovato la “via perfetta”, nel corso della sua esistenza e della sua carriera? E lei, Daniela, pensa di averla trovata, a due anni dalla scomparsa di suo marito?
Ogni tanto mi tornano in mente i nostri discorsi sui suoi progetti futuri e su quello che gli sarebbe piaciuto vedere realizzato. L’unica cosa di cui non avevamo tenuto conto è che tutto si sarebbe realizzato successivamente alla sua morte. Forse così come poi è andata è veramente la sua “via perfetta”. Daniele nei libri “La via Perfetta” e “In vetta al mondo” viene messo a nudo e raccontato come uomo. Nell’ultimo volume della collana “I grandi alpinisti” (dedicato appunto e Daniele e scritto da Gian Luca Gasca, ndr) viene raccontata tutta la sua carriera alpinistica che - ne sono certa - molti non conoscono nella sua totalità.
Per quanto riguarda me, ho Mattia: il regalo più bello che Daniele potesse farmi. È un bambino sereno, curioso, intelligente e con tanta voglia di vivere. Ogni mattina ci svegliamo e prima che apra completamente gli occhi gli sussurro nelle orecchie:
”Sei pronto per andare alla scoperta del mondo?”
Non ho nessuna intenzione di fermarmi: perché non posso, perché non voglio e perché Daniele non avrebbe voluto. Il sorriso e lo sguardo di Mattia - che mi ricordano Daniele - sono la mia “via perfetta”.