ALPINISMO, LA TESTIMONIANZA

“Ero così convinta di potercela fare, poi è iniziato l’incubo”, Tamara Lunger racconta il suo K2  

La 34enne alpinista altoatesina ripercorre la sua esperienza in una delle più drammatiche stagioni di scalate invernali sulla seconda vetta del pianeta.

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Rientrata in Italia dal Pakistan, Tamara Lunger sta trascorrendo il periodo di quarantena tra le montagne del suo Alto Adige, a più di cinquemila chilometri dai "giganti" di roccia e ghiaccio del Karakoram: lo "stacco" spazio-temporale necessario per riflettere sui momenti più duri e sugli incidenti delle scorse settimane all’ombra del K2 ma soprattutto per iniziare ad elaborarli. Intimamente ma anche - coraggiosamente - in una videoconferenza con un ristretto gruppo di giornalisti specializzati. Ecco i passaggi chiave del suo racconto.

“Secondo me adesso è ancora tutto un po’… fresco ma alcune cose mi sono già diventate molto chiare. Sembrava quasi che energeticamente l’anima della montagna non volesse essere salita perché, solo poche ore dopo che i nepalesi ne avevano toccato la vetta, Sergi (Mingote, ndr) ha trovato la morte. Io sono poi molto convinta che Juan Pablo, Ali e John (Mohr, Sadpara e Snorri, ndr) siano arrivati in cima e… forse non era destino e la mattina che io sono scesa è volato giù Atanas (Skatov, ndr) e… maaahhh (Tamara prende un profondo respiro) era tutto così… emozionale che per me… forse era anche un po’ uno shock. Per esempio quando ho visto cadere giù Sergi. È stato semplicemente incredibile. Ero a quaranta metri di distanza da dove lui poi è finito, praticamente all’ABC (il Campo Base Avanzato, ndr). Avevo tantissima paura di avvicinarmi e poi la cosa ancora più brutta è stata che lui era ancora in vita ed io mi sono detta che non volevo che soffrisse. Ha continuato a respirare ancora per più di un’ora e noi non eravamo… non eravamo in grado di fare nulla. Abbiamo provato a contattare l’ufficiale di collegamento per fare arrivare velocemente l’elicottero ma ero anche consapevole che forse non sarebbe arrivato fin lassù. Aveva proprio tutto rotto, tante fratture e la testa aperta e quindi era già chiaro che non sarebbe sopravvissuto. Siano rimasti lì e gli abbiamo parlato, siamo rimasti con lui per gli ultimi momenti della sua vita. Non riuscivo nemmeno a piangere, ero così sotto shock. Sono riuscita a piangere solo un paio di giorni più tardi, quando mi sono potuta fermare a riflettere un po’, con più pace, perché in realtà anche il giorno dopo è stato tutto un caos… Lo hanno portato fino al Campo Base. Era li’, vicino alla piazzola dell'elicottero e… e  poi lo hanno portato via ma c’erano ancora un sacco di cose da fare dal punto di vista organizzativo. Ci siamo alzati la mattina presto ed abbiamo preparato tutto il suo bagaglio per mandarlo giù. È stato tutto… un susseguirsi di avvenimenti, molto frenetico”.

 

Diretta ed essenziale nella comunicazione almeno quanto nel carattere, coraggiosa ed appassionata nel suo salire le montagne, Tamara rivive e soprattutto rivede i momenti più crudi e spietati delle settimane faticosamente lasciate alle spalle, nel momento in cui inevitabilmente deve immergersi nella delicata fase della rielaborazione dei drammi e delle tragedie che si sono consumati e succeduti senza soluzione di continuità (e soprattutto senza rimedio) nell’arco di un mese sulle pareti del K2, nel corso di una durissima campagna invernale sugli "ottomila" della Terra, dalla quale sei degli alpinisti tra i più quotati al mondo (includendo lo statunitense Alex Goldfarb sul vicino Pastore Peak) non hanno fatto ritorno. 

“Adesso però, forse, la cosa che finora ho avvertito … già quando sono scesa dalla montagna… ecco, ho sentito in modo talmente feroce tutto quanto la montagna mi ha detto. Ero partita per il K2 con tanta positività, con il pensiero che sarebbe stata una figata, ero motivatissima sulle mie possibilità. Ero così convinta di potercela fare e poi invece è iniziato l’incubo ed è stato come se la montagna mi stesse gridando in faccia: vattene via da qui. Tutta la via attrezzata cadeva a pezzi, tutti i fittoni venivano fuori, i chiodi pure, le corde che si consumavano, in pochissimo tempo. Ho veramente sentito una voce che mi diceva: no, non è il tuo posto e mi ha fatto anche riflettere sulla possibilità che forse questo sarebbe stato il mio ultimo tentativo d’inverno. E dovevo pagarlo caro perché proprio le persone che se ne sono andate… erano quelle con le quali mi ero trovata meglio al Campo Base. Loro veramente mi sono entrati tanto nel cuore. Sergi lo vedevo quasi come un papà che ti dava sempre sicurezza. Atanas era una persona molto spirituale: abbiamo fatto yoga insieme, abbiamo parlato con l’anima della montagna, era così bello. Poi con JP siamo stati in sintonia da subito, l’intesa è stata immediata, avevamo gli stessi pensieri. Era tutto così in armonia con loro e poi anche con Ali che conoscevo da tanto tempo. John invece l’ho conosciuto là: era sempre sorridente e felice. Chissà, forse era destino che fossero proprio loro - purtroppo attraverso tutto questo dolore - a farmi capire che magari per me tutto questo adesso è il passato, che è ora di qualcosa di diverso, di voltare pagina. Non lo so, vedremo, perché sicuramente adesso sono ancora un po’ sottosopra ed ho bisogno di altro tempo per capire certe cose… che affioreranno man mano che vado avanti”.

 

Messa duramente alla prova - fisicamente e psicologicamente - già lo scorso inverno dal drammatico salvataggio di Simone Moro (caduto in un crepaccio del ghiacciaio del Gasherbrum durante la loro spedizione), Tamara nel corso del 2020 aveva ritrovato pace e serenità lungo l’itinerario in camper che l’aveva portata a toccare la scorsa estate i punti più alti di tutte le regioni italiane. Questa volta - pare di intuire dalle parole di questa ragazza coraggiosa - serviranno energie (come a lei piace chiamarle) ancora più alte, potenti e profonde. Una nuova partenza, un nuovo “campo base”. Una tendina dentro la quale riporre in buon ordine i tesori dell’esperienza. Per poi uscire, tirare la zip ed incamminarsi ancora una volta, nella notte e verso l’alba: alla luce della sua frontale, del suo cuore di grande alpinista e donna ancora più tosta. Energie e certezze necessarie a farcela non le mancano. Le tragedie del K2 non sono riuscite a scalfirle.  

“Per me era molto importante tornare a casa per abbracciare mamma e papà perché credo che loro fossero molto, molto preoccupati. Mia mamma non l'avevo mai sentita così agitata ed anche mio papà, quando l’ho abbracciato… ho sentito che lui non mi aveva mai riabbracciata così! Già quando ero in spedizione continuavano a dirmi: dai vieni a casa, vieni a casa, non vediamo l’ora che vieni a casa. Poi però sono rimasta ancora là perché ho trascorso quattro giorni con il cugino-manager (oltre che migliore amico) di JP Mohr e… mi ha fatto un bene, ma mi ha fatto così tanto bene…! Abbiamo pianto insieme, ci siamo raccontati delle cose e semplicemente ripassare tutti i momenti belli ed anche tutte le loro esperienze… è stato così bello ed al tempo stesso così triste".

 

"Poi abbiamo fatto una piccola cerimonia, alla fine della quale abbiamo detto: non possiamo essere tristi pensando a lui, perché lui era sempre felice e vuole che lo siamo anche noi. Già a quel punto, mentre ero là, mia mamma ha detto: ok, vedo che ti fa bene, quindi… va bene. Anche la natura mi fa tanto bene perché - è vero - sono in quarantena ma vivo in un paesino di cinquecento anime, abbiamo un po’ di terreno e gli animali ed oggi è un giornata bellissima. Quindi esco in giardino, mi godo il sole, mi godo gli alberi ed è tutto ciò di cui ho veramente bisogno: di avvertire questa connessione ed anche di avere pace con me stessa o tempo per me stessa. Perché la prima cosa che mia mamma mi ha detto quando l’ho chiamata è stata: spero che non tu non perda la tua fiducia in Dio, perché io sono molto credente e per lei era questa la cosa più importante. Mi ha detto: questa per te è stata un’esperienza molto, molto difficile e quindi spero che tu non perda la fede. Però no, veramente non la perdo. Può sembrare molto brutale ma io sono convinta che tutto succeda per una ragione. Adesso non lo sappiamo ancora ma forse da questi lutti è già nato qualcosa di nuovo e quindi è già possibile intuire che non sia tutto finito. Adesso va avanti, continua, in un altro modo. Ora me ne sto un pò qui a casa e provo a cominciare ad allenarmi. Però non voglio mettermi troppa pressione addosso, perché altrimenti ridiventa tutto un obbligo ed io invece voglio proprio stare in pace: riflettere quando c’è bisogno di riflettere, piangere quando c’è bisogno di piangere e... dare tempo al tempo”.

 

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