IL PROTAGONISTA

Uno scudetto on fire: l'anno magico di Pioli, il tecnico del miracoli

Da sottovalutato a vincente: storia di un uomo che ha saputo cambiare il Milan e se stesso

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Il suo anno sportivamente più bello è finito in bella mostra sul braccio sinistro, tatuato per rendere indelebile un ricordo e, in qualche modo, per spazzare via anche l'ultimo granello di interismo rimasto. Comunque la si guardi, quale che sia il tifo o la simpatia, Stefano Pioli e il Milan sono una storia bella. Una storia di riscatto, innanzitutto, di un uomo considerato sempre troppo poco, tecnicamente bravo, umanamente indiscutibile, passato per la tragedia di Davide Astori che, dice lui, lo ha segnato e cambiato nel profondo. Così il gruppo è diventato centrale nel suo lavoro, insieme all'attenzione personale prima ancora che l'ossessione tattica. Stefano Pioli non è solo "on fire", come cantano da un anno i tifosi del Milan, è anche e soprattutto in evoluzione, un allenatore che studia e cambia, cerca soluzioni, prova a inventarsi un calcio diverso a uso e consumo di una squadra che senza di lui non avrebbe vinto un meritatissimo scudetto.   

Da quando ha messo piede per la prima volta a Milanello, anticipato da uno scetticismo largo e ingiustificato, Stefano Pioli si è dedicato profondamente, aggiungendo calcio a calcio. Prima le soluzioni più banali ma anche più importanti, qualche giocata da fare al buio che potesse garantire sicurezza - i triangoli in ogni zona del campo, specie sulle fasce, e tre soluzioni semplici cui affidarsi nella difficoltà -, poi alcuni esperimenti interessanti diventati vincenti, i terzini dentro al campo o il centrocampista largo per creare superiorità numerica, per dirne solo due. Ma anche, e non è banale, l'umiltà di lavorare sempre sull'avversario, di adattare le intenzioni proprie a quelle degli altri, la ferma volontà di allenare e non di limitarsi, come fanno molti suoi importanti colleghi, a gestire. 

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Questo, più di altro, segna la differenza tra Pioli e alcuni tecnici importanti. Pioli allena, sempre. La gestione, che fa comunque parte del suo lavoro, è stata in qualche modo affidata ai suoi vecchi, a Ibra o Kjaer - ma anche questa è abilità, scegliersi i giusti "partner" - a Giroud o Maignan, i suoi trascinatori in campo e negli allenamenti, più negli allenamenti che in campo, perché è lì che si costruiscono mentalità vincente e successi. Il suo Pioli lo ha fatto tenendo stretto un gruppo, facendo sentire tutti partecipi di un progetto, difendendo i suoi uomini quando necessario, spronandoli e insinuando in ciascuno di loro la convinzione di poter vincere attraverso il lavoro e la tenacia. 

Così, ed è il punto più alto del suo lavoro, con lui sono migliorati tutti. Tutti, nessuno escluso. Da Calabria a Theo, da Tonali a Leao e Bennacer fino a quelli che non ci sono più, Kessie e Calhanoglu sopra tutti, che dovrebbero ringraziarlo per quel che sono diventati. Pioli non è solo l'allenatore dell'anno perché ha vinto. E' l'allenatore dell'anno perché, insieme alla sua dirigenza, ha indicato una via da seguire e dimostrato che si può vincere anche lavorando sui giovani e non solo gestendo giocatori affermati. E la crescita del suo gruppo è stata la crescita sua. Per dire: se quando è arrivato gli si chiedeva un piazzamento Champions e oggi si storce il naso per il suo secondo posto in classifica - con ottavi europei in tasca - vuol dire che qualcosa è davvero cambiato. E' cambiato il modo di guardarlo, perché era miope, sbagliato. E' cambiato il modo di pensarlo. E' tutto tatuato sul braccio sinistro, uno scudetto in bella mostra e il punto esclamativo su un anno indimenticabile.  

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