Rispetto a un anno fa i nerazzurri possono festeggiare la qualificazione Champions in anticipo. Sono comunque tanti gli interrogativi legati a questo campionato
di Bruno Longhi
E’ tempo di bilanci in casa Inter. Non definitivi, mancano quattro partite e c’è ancora in gioco l’Europa League. Ma è innegabile quanto sia migliorata la situazione rispetto ad un anno fa di questi tempi. Allora il piazzamento Champions era ancora in alto mare e sarebbe stato raggiunto solo all’81' dell’ultima partita a San Siro con l’Empoli, grazie ad una perla di Nainggollan. Oggi invece la Champions è già certezza, con trecentosessanta minuti d’anticipo e con un bottino di 10 punti in più rispetto alla classifica di un anno fa dopo la 34a giornata.
Numeri di cui bisogna accontentarsi, ma che non danno la felicità. Per quella ci vorrebbe la cristallizzazione del secondo posto e soprattutto la ciliegiona dell’Europa League. Conte fa i conti. Ma non gli tornano. Guarda e riguarda il calendario e non può fare a meno di piangere sul tanto latte versato. A fronte dei pochi colpi di fortuna (i successi ottenuti in extremis in casa col Verona, a Bologna e a Parma), rivede passare davanti ai suoi occhi le tante, troppe vittorie vanificate per peccati di concentrazione, di personalità o di inadattabilità alle pressioni del vertice della classifica: a Firenze, a Lecce, a Verona, due volte all’Olimpico, in casa con Atalanta, Cagliari, Sassuolo e Bologna.
Troppi punti gettati al vento e alle ortiche in questo campionato anomalo e quindi aperto anche a un clamoroso successo della sua squadra, nonostante una rosa non proprio da scudetto. Era partita forte l’Inter. Conte aveva trovato l’alchimia perfetta. Azione che parte dal basso, dai difensori. Centrocampisti in grado di sdoppiarsi in fase di contenimento e di proposizione (ma Brozovic allora era in stato di grazia, mentre Sensi e Asamoah sono usciti dai radar).
E poi quei due là davanti, Lukaku e Martinez, capaci di intendersi come due fratelli siamesi e di trasformare in oro ciò che la manovalanza costruiva con rapide verticalizzazioni. L’Uefa, ricordiamolo, pubblicò un video relativo a Barcellona-Inter in cui esaltava la capacità della squadra di Conte di arrivare a concludere con Sensi nel giro di 30 secondi un’azione partita da Handanovic e passata attraverso una serie di passaggi illuminanti senza che l’avversario toccasse palla.
Una medaglia appuntata al petto del tecnico. Allora eravamo solo ai primi d’Ottobre e quello pareva l’inizio di una stagione forse indimenticabile. Ma quell’Inter non c’è più. O meglio: non c’è stata più. La si è vista a tratti, la si è intravvista. La mano di Conte la si vede, sempre. Ma oggi è un’altra squadra. Sono cambiati gli interpreti a centrocampo. Il tandem Lukaku-Martinez non è più quello di allora. Colpa principalmente del rendimento dell’argentino precipitato forse (ma non ci giurerei) a causa delle voci di mercato.
Sanchez si dà un gran daffare. E’ una trottola sempre in movimento. Ma con lui non puoi replicare quell’altra formula vincente. E poi c’è Erikssen, il talento danese che avrebbe dovuto risolvere il problema emerso a causa dei continui infortuni di Sensi, e che invece è diventato lui stesso un problema in più. E non facile da gestire. Conte si era illuso. Aveva accarezzato il sogno di poter essere ancora una volta vincente al primo tentativo. Non è stato così.
Aspettando l’Europa League ora è preda della disillusione. Ha visto la sua squadra divenire schiava delle proprie paure e quindi incapace di fare l’indispensabile salto di qualità per spiccare il volo. Riflette. Pensa. Si chiede se riuscirà nella prossima stagione a ritrovare gli stessi stimoli che l’avevano accompagnato all’inizio di questa avventura. Non ne è sicuro. Oggi lui è Amleto: essere o non essere, anche nella prossima stagione, l’allenatore dell’Inter. Questo il (suo) dilemma.
@brunolonghi7