Lauda ha scritto la storia nostra scrivendo la sua: il ritratto di Giorgio Terruzzi

Niki era una pezzo unico e si fa fatica adesso parlarne con i verbi al passato

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Aveva battuto la morte. Anno 1976. Un biglietto di ritorno dall'inferno strappato con una cocciutaggine solo sua dopo quel rogo al Nurburgring che l'aveva quasi ucciso. Era forte, Niki Lauda, un pezzo unico e si fa fatica adesso parlarne con i verbi al passato. Ucciso dalle complicanze di una polmonite a 70 anni. Trapianto di polmone dopo quello, doppio, renale, abbastanza per piegare persino lui.

Il pilota che vinse tre titoli mondiali, 1975, 1977 con Ferrari; 1984 con la McLaren, cacciando in mezzo la creazione di una compagnia aerea perché Niki pensava, agiva in grande sempre. Un cognome fatto apposta per i titoli di testa, un nonno feroce contro il quale farsi le ossa prima di affrontare un altro grande vecchio Enzo Ferrari, al quale tenere testa quando Lauda era la firma più gettonata, un marchio più importante di quello che stava sulla macchine del Commendatore, Ferrari, appunto, guai.

Campione nel momento del boom televisivo, rivoluzionario sul tema contratti, sponsor, sicurezza. Un capo. Un cinico formidabile, un volto con la sua storia esposta, paura compresa, quella che lo fermò al Fuji 1976 consegnando il Mondiale a James Hunt, un amico, al contrario di quanto narrato nel film Rush. Faceva tenerezza con il suo italiano farcito di parolacce, guai a dirlo però, ti mandava al diavolo, scappava via. Concentrato e per nulla disponibile quando guidava, prodigo di analisi, consigli, lucidità più tardi, il riferimento per tutti noi, per Lewis Hamilton, cresciuto grazie alle sue dritte, date con severità anche quando gli sfuggiva una dolcezza inconfessabile, per i suoi figli amatissimi senza un gesto di troppo, figuriamoci. Niki Lauda ha scritto la storia nostra scrivendo la sua. Non ho amici, diceva. Ho solo dei quasi amici. Tutti noi, ecco. Presi adeso da una tristezza da abbandono che proprio non va giù.

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