Oggi è un giorno particolare per il Milan, un giorno che segna una delle tappe della memoria – e grazie al cielo sono tantissime – di questo club così glorioso. Cinquanta anni fa giusti giusti, la battaglia di Buenos Aires, l'Estudiantes e la Bomboniera, la prima Coppa Intercontinentale. Conquistata davvero con il sangue, le ferite, le botte, i lividi, il rischio per Nestor Combin e Pierino Prati di danni personali permanenti: cose che dovrebbero rimanere in mente quando di questi tempi, durante confortevolissime conferenze stampa che precedono match inutili, senti pronunciare dall’allenatore X o dal giocatore Y frasi roboanti e ad minchiam tipo “giocheremo una finale” o ancora “siamo pronti a morire per questa maglia”.
Nereo Rocco e i suoi “muli”, guidati da Gianni Rivera, prima di quei tremendi, cruenti 90 minuti non dissero queste cose manco per scherzo, pur sapendo benissimo a cosa stavano andando incontro. Si era già capito nella gara di andata a San Siro, che dietro la facciata bella del 3-0 per il Milan, dello stadio by night e tutto quanto aveva già riservato ai Paròn Boys calci, minacce, provocazioni, il trailer di quanto poi sarebbe deflagrato nello stadio del Boca Juniors 15 giorni dopo. Estudiantes-Milan, 50 anni dopo, è una storia di coraggio, una delle pagine più alte di 120 anni di storia: perché ci vuole coraggio a prenderle, prenderle e non potere reagire, soprattutto non volere reagire sapendo che poteva essere esiziale. Disse bene Gianni Rivera, anch'egli bersaglio mobile di interventi spaccagambe e pugni a gioco fermo: “Se avessimo accettato la rissa forse non saremmo tornati vivi”. Iperbole? Esagerazione? Non proprio, se in Italia, per qualche ora, si sparse l voce della morte sull'aereo di Pierino Prati, vittima di un trauma cranico. E quale sarebbe stata la sorte di Nestor l' “Indio” – come lo chiamava Rocco - che dallo stadio doveva andare solo in un posto, vale a dire l'ospedale, per scongiurare un'emorragia inarrestabile: e invece finì in carcere. Ci sono degli straordinari documenti di quella incredibile notte e di quegli incredibili giorni, prima e dopo la finale, su Youtube: le immagini di Combin in caserma che aspetta il rilascio, e 15 ore dopo la partita è ancora lì che si tampona il naso, la faccia conciata da sbattere via, fanno impressione; e poi ancora finalmente all'aeroporto di Ezeiza, attorniato e accarezzato dai suoi parenti argentini prima di riprendere l'aereo con a bordo lui, i compagni, l'allenatore, i dirigenti, il Milan. E la Coppa, finalmente sollevata nel cielo azzurro della Malpensa dal capitano Rivera: a Buenos Aires, per questioni di ordine pubblico, era stata consegnata negli spogliatoi, di nascosto. In questi 50 anni la storia rossonera si è riempita di tante altre cose, luci abbaglianti, cadute rovinose, gioie impensabili, fuoriclasse, delusioni, giorni fulgidi e altri da dimenticare.
Una storia comunque fantastica, almeno fino a pochi anni fa, quando è cominciato questo lungo stand-by di cui il Milan è sia vittima che colpevole. Il messaggio che arriva dal ricordo della Bombonera e da quella notte da incubo è che il titolo, il grandissimo successo sportivo – il primo titolo mondiale, l'apice – è diventato secondario rispetto alla vittoria umana, dai valori forti patrimonio di quel gruppo di uomini, che hanno davvero un posto speciale nel cammino del Diavolo e di tutto il calcio italiano. Se qualcuno degli sperduti ragazzi della squadra di oggi ha bisogno di ispirazione, di esempio, legga, guardi, si documenti, cerchi i numeri di chi ancora c'è – grazie a Dio sono tanti – e chieda. Ci troverà dentro tantissimo, il meglio del Milan, la cultura del Milan, il significato del Milan.
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