Guardiola non vuole più essere Guardiola

La dura vita del profeta, fuori dalla patria

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Pochi giorni fa perfino alla Bobo TV ha provato a togliersi la nomea del più bravo, lì dove Lele Adani con occhi sgranati ne parla spesso come di un idolo biblico: «i giocatori erano fortissimi», «ho imparato tanto da loro», «giocavano le finali come fossero amichevoli», a chiarire una volta per tutte che quel suo leggendario Barcellona fu merito di “un allineamento di stelle” prima ancora che dei suoi principi di gioco. E anche ad aprile, al termine del quarto di finale vinto contro il Borussia Dortmund, ai microfoni di Sky aveva mostrato il suo lato più umile, ringraziando i suoi calciatori con parole quasi allegriane:

«la qualità dei giocatori ha fatto la differenza: il calcio appartiene esclusivamente ai giocatori, io posso solamente guidare la squadra».

Perché Guardiola, soprattutto negli ultimi anni, non ci sta ad essere preso per il guru del calcio (post)moderno. A maggior ragione dopo la dolorosa lezione di calcio impartitagli in finale di Champions da Tuchel, Pep sembra sempre più lontano dalla sua versione filosofeggiante che se ne usciva con frasi instagrammabili quali “il nostro centravanti è lo spazio”. Adesso preferisce un low profile, probabilmente non alla Mourinho per distogliere l’attenzione dal risultato (pensiamo al bacio alla medaglia da vice-campione) bensì per scrollarsi di dosso un po’ di pressioni, per darsi una pubblica ridimensionata. E del resto proprio alla Bobo TV aveva provato a sminuire persino l’invenzione del cosiddetto “falso nueve”, rivelando di aver fatto con Messi semplicemente quanto sperimentato da Cruijff con Laudrup anni prima.

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