ALPINISMO

Spedizione Gasherbrum: tra alpinismo e scienza

Al via a metà dicembre la nuova spedizione invernale dell'alpinista-esploratore bergamasco in Pakistan, ancora una volta in cordata con Tamara Lunger

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Tra gli otto ... “ottomila” già presenti nel carnet di Simone Moro figura il Gasherbrum II, tredicesimo dei quattordici giganti del pianeta con gli 8035 metri della sua vetta, nonché uno dei quattro saliti in prima invernale dal fortissimo alpinista ed esploratore bergamasco, cinquantadue anni compiuti alla fine di ottobre. Eppure è proprio là che Simone tornerà tra la metà di dicembre e (presumibilmente) i primi giorni di febbraio del prossimo anno. Ma perché?

Simone lo ha spiegato ad una platea appassionata e da tutto esaurito al Grand Hotel Villa Torretta di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, nel corso della quale ha presentato anche la sua decima fatica editoriale: “I sogni non sono in discesa” (Rizzoli). E la ragione è questa: il prossimo 18 o 19 dicembre Simone partirà per il Pakistan con la missione di rimettere piede sulla vetta del Gasherbrum II ma solo … dopo aver raggiunto per la vetta del vicino Gasherbrum I (undicesima montagna della Terra con i suoi 8068 metri) che rappresenta, semplificando al massimo, l’obiettivo minimo della spedizione. Il tutto passando per il Gasherbrum La (Passo del Gasherbrum), la sella a 6400 metri circa di quota che separa le due montagne. Senza fare ritorno al campo base ma seguendo (almeno nelle intenzioni) itinerari del tutto identici di salita e discesa su entrambe le montagne. Quindi toccando tre volte il valico che le separa. Tecnicamente un concatenamento, però idealmente ispirato alla storica traversata G1-G2 realizzata nell'estate di trentacinque anni fa da Reinhold Messner ed Hans Kammerlander che, nel loro itinerario, non calpestarono mai le loro tracce precedenti, realizzando in pratica un itinerario ad anello. Ed è questa la più sintetica ed efficace differenza tra una traversata appunto ed un concatenamento. Il legame ideale lascia però subito spazio ad altre considerazioni. Simone e la fortissima altoatesina Tamara Lunger con la quale il "nostro" farà cordata, riformando un binomio ormai collaudato e di successo, daranno vita al loro tentativo nel pieno della stagione invernale e, oltre il primo campo, affronteranno la montagna senza aiuti esterni. La seconda considerazione riguarda la possibilità per il binomio Moro-Lunger di concedersi più opzioni, varianti e correzioni di “rotta”. Perché attaccare i due giganti pakistani in inverno non è proprio missione da "scienza esatta", non è come tirare un pallone dentro una rete o un canestro oppure ancora tagliare il traguardo di un Gran Premio dopo un numero certo di giri di un circuito. Si tratta di rischio, calcolo, azzardo, possibilità di rinuncia. Concetti sui quali Simone aveva già insistito nel corso dell’intervista che ci aveva concesso pochi giorni prima della serata milanese, sulle montagne dietro casa sua, a margine della Safety Experience organizzata da Garmin per la stampa specializzata. E che vi proponiamo integralmente qui di seguito: tra tecnologia satellitare, soccorso in Himalaya e Karakorum, imprese alpinistiche di una stagione di scalate che finisce ma che … riparte subito e proprio con il progetto Gasherbrum di Moro e Lunger. 

Simone, la stagione delle scalate invernali sulle montagne più alte del pianeta sta per iniziare ma, ripensando a quella estiva ormai terminata, quali sono state a tuo giudizio le realizzazioni più significative del 2019?

Ce ne sono state parecchie. C’è da dire che l’apertura di vie nuove mi attrae particolarmente, sempre. Mi viene in mente la via nuova che ha aperto Denis Urubko al Gasherbrum II: è stata una bella salita e con un coefficiente di rischio … secondo me fuori di testa. Una grande salita, fatta in solitaria, fatta in velocità ma se si guarda quella linea … lì sopra c’è un seracco che ti guarda e che potrebbe cadere da un momento all’altro. Quindi non è il tipo di vie nuove che mi sento di consigliare. Però tanto di cappello a Denis che l’ha salita. Mi vengono in mente anche le salite che ha fatto il figlio di Reinhold Messner, Simon, che sta facendo un alpinismo bellissimo. Sta cercando di non copiare quello del padre ed è intelligente. Un Simon Messner che va agli ottomila con un papà che ha fatto tutto sugli ottomila sarebbe una scelta sbagliata. Sta facendo invece delle montagne di sei-settemila metri, inviolate, un paio delle quali le ha salite in solitaria. Quindi vorrei portare all’attenzione dei media il fatto che c’è un nuovo Messner, che è suo figlio, che si chiama … come me e che sta facendo un bell’alpinismo. L’ho visto di recente e magari … nasce anche qualcosa.

Tu hai dato un tuo parere molto approfondito e circostanziato sull’exploit di Nirmal Purja (quattordici ottomila in sei mesi, ndr), dicendo praticamente che questa impresa è stata una sorta di spartiacque tra ieri e oggi, sia per gli alpinisti di punta sia per chi fa attività sugli ottomila ma non è professionista.

Si, non è l’alpinismo che piace e me, non è quello che voglio fare ma siccome non esiste un alpinismo buono e un alpinismo cattivo, io cerco di guardare ciò che succede nel mondo provando a capire che peso possa avere. E è stato utilissimo quello che ha fatto Nirmal, si tratta comunque di una grande impresa perché ti garantisco che fare quattordici ottomila in sei mesi, anche con l’ossigeno, è durissima: per i tempi di recupero, per la tenacia, per il fatto che non puoi attendere condizioni meteo favorevoli. Aveva una squadra eccezionale, Nirmal: io l’ho anche portato in uno dei suoi viaggi, quando ero in Nepal a pilotare. Però quella non è sicuramente esplorazione perché non ha portato nulla di nuovo: il gurkha ha fatto “solo” in maniera più veloce quello che avevano già fatto altri. Ma voi giornalisti, grazie a Nirmal Purja, non potrete più cadere nella trappola che se un “pincopallino” un domani se ne esce con un “io fatto un ottomila con l’ossigeno”, voi potete obiettare: guarda, bravo, però c’è uno che ne ha fatti quattordici, di ottomila, in sei mesi. Quindi, siccome c’era ancora qualcuno che con un bell’ufficio stampa se la raccontava e ce la raccontava … beh oggi, fine! Oggi o fai un alpinismo in stile alpino, senza ossigeno, magari in invernale e allora si capisce che stai facendo una certa cosa, oppure stai facendo un’altra – bellissima – cosa che è un alpinismo di punta o turismo …”vacanziero” perché ormai ci sono agenzie che ti lasciano a casa, vanno là, allestiscono i campi base e poi ti chiamano quando sta venendo bel tempo: così tu arrivi e vai in cima. Ecco, quello è un alpinismo guidato – e io sono una guida alpina, quindi non ne sto parlando male – ma non è esplorazione … e non è avventura. Grazie a Nirmal, quelli che se la giocavano e me la raccontavano, oggi non me la raccontano più. Nirmal è stato il numero uno per quel “turismo di alpinismo” e adesso …  spazio agli altri!

Ampliamo l’orizzonte. Tu ti occupi anche di elisoccorso, anche in Himalaya , sei pilota di elicotteri. Com’è cambiato il soccorso nei teatri d’alta quota, rispetto alle tue prime spedizioni?

Le macchine oggi, gli elicotteri, sono un po’ più performanti, le abilità dei piloti si sono specializzate, la mappatura è più accurata ma … manca un tassello: se io ho le mappe più belle, ho l’elicottero più potente, il team più efficace … ma non so dove sei e tu potevi mandarmi la tua posizione con una spesa di poche centinaia di euro,beh allora io vado in giro, rischio la pelle, magari vado anche nella nebbia, sono nel punto sbagliato, mi han detto che tu eri lì, invece sei da un’altra parte e tu stesso potevi evitare che noi ci ammazzassimo, perché tanta gente del soccorso ci lascia e ci ha lasciato la pelle nel tentativo di andare a soccorrere qualcuno che non si sapeva dov’era. Io sono un pilota del soccorso.. Se mi dicono: guarda che è sparito un, queste sono le coordinate, è una questione di minuti e tu sei a casa. Se invece mi dicono: è sparito ma non sappiamo la posizione e magari c’è brutto tempo, e io pur di salvarti mi caccio nelle nuvole … e sono nella zona sbagliata … eh, mi incavolo! 

Dietro l'attenzione di Moro sui pericoli connessi alla pratica dell’alpinismo in alta ed altissima quota ed al coefficiente di rischio direttamente proporzionale degli eventuali interventi di soccorso c’è soprattutto la constatazione che oggi a fare la differenza è la tecnologia satellitare che – potenzialmente – moltiplica le probabilità di operazioni di soccorso portate a termine con esito positivo, in termini di salvataggio di vite umane.

Simone, un grande alpinista come spiega l’utilità della tecnologia satellitare oggi per un outdoor fatto da gente comune?

Lo spiego nel senso che oggi dovrebbe essere diventata un’ovvietà. Come si esorta la gente che va a fare fuoripista a dotarsi dell’Arva che emette un segnale per essere localizzati anche sotto una valanga. Oggi invece noi pensiamo che se abbiamo l’Arva e abbiamo il cellulare siamo a posto. Quindi confidiamo nella ricezione di un segnale che fa venire il Soccorso a prenderci ed a salvarci. Non è così. Oggi ci sono delle tecnologie, ci sono dispositivi come ad esempio inReach che sono grandi la metà di un pacchetto di sigarette. Solo che le sigarette fanno male, questo ti salva la pelle, pesa la metà ed alla fine ti costa molto meno: se sei un fumatore incallito ne compri dieci all’anno di questi. La sicurezza è il leit motiv per cui questi dispositivi sono nati ed è anche il leit motiv della mia vita. Perché io ho rinunciato un sacco di volte. Sono vivo perché ho avuto fortuna ma anche perché ho rinunciato quando bisognava rinunciare. Io oggi utilizzo questa tecnologia e non la utilizzo solo in Himalaya: la utilizzo anche in Himalaya. La utilizzo nei boschi, in canoa, quando vado a sciare o a fare scialpinismo. Porre attenzione sulla sicurezza vuol dire riportare al centro anche l’uomo, cioè porre attenzione su se stessi. Invece noi molto spesso poniamo attenzione sulla forma ma non sulla sostanza. La tecnologia satellitare oggi c’è, qualche centinaia di euro speso una volta – forever – ti salva la pelle. Non vedo perché ancora oggi dobbiamo leggere: fungaiolo sparisce, scivola, muore perché non l’hanno trovato.

Quanto conti sulla tecnologia satellitare quando fai una spedizione, uno dei tuoi viaggi? Quanto affidi della tua sicurezza alla tecnologia, quanto alla tua coscienza, quanto al tuo cuore?

Allora, dispositivi come quelli sul mercato non diminuiscono i rischi: è una cosa importante, anzi basilare. Non è che lo acquisto e quindi posso rischiare. Perché se ti fai male, ti ammazzi … ed è finita, puoi avere tutta la tecnologia del mondo ma … Quindi questo non deve cambiare il proprio comportamento nell’approccio al pericolo, ai propri limiti o alle difficoltà. Ma è uno strumento necessario perché in qualsiasi situazione, anche senza farsi particolarmente male, si può scoprire che il telefonino non prende. Non vorrei che passasse il solito messaggio: mi compro la bicicletta bellissima e … vinco il Giro d’Italia. No, compri la bici bellissima e sei ancora … in garage. Allo stesso modo, ti procuri un dispositivo bellissimo ma … se non esci non serve a un tubo. Non bisogna pensare che il fatto che uno possa essere soccorso elimini le ostilità del mondo outdoor. Io ne faccio uso, un uso quotidiano, e me lo porto anche in Himalaya. Non mi è mai capitato di schiacciare il pulsante SOS ma so che - se mai dovessi farlo - questa ultima spiaggia (che sarebbe stata definitivamente l’ultima, se non lo avessi) si tramuterebbe  in un’operazione di soccorso.

Logico a questo punto pensare che la tecnologia satellitare, sotto forma di un dispositivo dal peso minimo e dalle ridotte dimensioni, troverà lo spazio che merita negli zaini di Simone e Tamara. La loro però sarà una spedizione dalle caratteristiche multiformi: perché oltre all’aspetto sportivo (o meglio, avventuroso) ed a quello tecnologico, legato appunto alla sicurezza, un ruolo di primo piano lo avrà il risvolto scientifico. Nella preparazione dei due alpinisti infatti un peso specifico importante lo ha ricoperto, e lo ricopre tuttora, visto che è ancora in corso, il processo di acclimatamento (anzi pre-acclimatamento) e di adattamento all’alta quota: quattro settimane all’interno di terraXcube, l’infrastruttura di ricerca di Eurac Research di Bolzano, partner scientifico del progetto. Si tratta di una camera ipobarica che simula le condizioni climatiche più estreme che è possibile trovare sulla Terra. L’obiettivo dello studio è quello di valutare le reazioni dell’organismo nello stato di ipossia generale, condizione che si verifica in mancanza di ossigeno e lo studio stesso sarà completato al rientro dal Pakistan, con la valutazione di tempi e modi del de-acclimatamento. Informazioni, quelle che verranno raccolte prima e dopo la spedizione, che potranno rivelarsi preziose per le attività sportive che hanno a che fare con l'alta quota e le attività in ipossia. E che, aggiungiamo noi, per quanto riguarda l'alpinismo, non mancheranno di aprire il dibattito sugli aspetti “etici” di un processo di acclimatamento realizzato "indoor", prima ancora di raggiungere il campo base …

 

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