È il 4 luglio 2004. Estadio Da Luz, Lisbona, finale dell’Europeo. La ripresa è iniziata da dodici minuti tra la Grecia e i padroni di casa del Portogallo. Il centrocampista greco Basinas sistema la sfera, pronto a battere un calcio d’angolo dalla destra. Il risultato è sempre fermo sullo zero a zero. Sugli spalti ci sono circa 63mila spettatori. Quasi tutti indossano la maglia rossoverde dei lusitani e stanno aspettando un trionfo internazionale troppe volte rimandato. Per una nazione capace di dare vita a fuoriclasse del calibro di Eusebio, Figo e Rui Costa quella bacheca vuota è diventata un peso insopportabile. La voglia di togliersi di dosso l’etichetta di “incompiuti” è tanta e quell’Europeo è l’occasione giusto per cambiare la storia calcistica di un intero paese.
È dal 1999 – anno in cui la UEFA ha assegnato l’edizione 2004 – che il Portogallo sta aspettando quel momento e quella partita: la finale. Per arrivare a quell’atto conclusivo il Portogallo ha vinto il proprio girone, battuto l’Inghilterra ai rigori nella partita più emozionante del torneo ed estromesso d’autorità l’Olanda in semifinale. È la squadra di Luis Figo, Manuel Rui Costa, Ricardo Carvalho e di un 19enne di Madeira che ha segnato due reti. Il suo nome è Cristiano Ronaldo. Tutto sembra presagire una sola conclusione possibile. Anche la Grecia pare la classica vittima sacrificale che fa da sfondo a un successo liberatorio. Questo però “sulla carta”. Perché ai più attenti e neutri osservati la finale del Da Luz appare come una partita il cui esito, in un modo o nell’altro, è già stato scritto. Un finale a tinte biancocelesti. Non vi è una spiegazione logica in questo ma una sensazione intima quando inspiegabile, che affonda le radici in un percorso oltre ogni limite e scetticismo. Un cammino che ha saputo unire un paese intero come poche altre volte era accaduto nella storia.
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