Per certi versi John O’Shea non ha un corpo, un numero, una maglia, un ruolo, è un puzzle, un ritratto cubista alla Roger de la Fresnaye, quadrato e squadrato, il braccio distante e vicino alla spalla, il ginocchio che separa le parti e non le unisce; l’irlandese, che ha giocato per dieci anni nel Manchester United di Alex Ferguson, ha occupato ogni posizione del campo: terzino, attaccante, centrocampista e persino portiere contro il Tottenham a pochi minuti dalla fine, sostituendo Van der Saar perchè i cambi erano finiti; intervenendo in uscita una volta coi pugni e un’altra coi piedi sul connazionale Keane mostrò audacia e dinamismo pure tra i pali.
Qui non c’è corpo, come scrive la poetessa emiliana Sonia Lambertini, per la sua plasticità il calciatore irlandese appare un barbapapà capace di modificarsi a seconda delle circostanze, uno Zelig situazionista, non c’è trauma o sopruso tattico di un allenatore piuttosto la vocazione a una sola moltitudine.
Non ricordo nulla di rammendi
dei miei ritagli, solo pause
ritmi irregolari, da tremare in testa
da scordare il mondo
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