Istruzioni per capire davvero Roberto Mancini

Nel trentesimo anniversario dello scudetto della Sampdoria abbiamo fatto una chiacchierata con Marco Gaetani, autore del libro “Roberto Mancini, senza mezze misure”, uscito da poco per 66thand2nd

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La prima sensazione di Roberto Mancini una volta arrivato a Genova è di moderata repulsione. «Ma come fa la gente a vivere in una città del genere?», si domanda.
Non ha ancora 18 anni ma in testa ha già una granitica certezza: lui in Liguria non si fermerà a lungo. La storia racconterà una versione molto diversa. Perché in quella città ci resterà 15 anni. Fino a diventarne prima figlio adottivo e poi simbolo. Una contraddizione che racconta in maniera efficace una delle figure più complesse del nostro calcio. Attaccante per istinto, regista offensivo per scelta, il numero 10 è stato un personaggio dominato da antinomie inconciliabili. E forse è per questo che è riuscito a interpretare in maniera originale il ruolo di fantasista, a diventare qualcosa di molto diverso da tutti gli altri calciatori che hanno attraversato gli anni Ottanta e Novanta.

Solista perfetto che si esaltava nella dimensione collettiva, Roberto Mancini è stato sempre più capobranco che leader. Colpa di quella ricerca della perfezione che per durante la sua carriera si è trasformata in ossessione. Un tormento che ha affilato gli spigoli del suo carattere, che lo ha fatto vivere in uno stato di nervosismo permanente. Chi in campo non parlava la sua stessa lingua diventava un impedimento, un ostacolo che si frapponeva fra lui e il successo. E inevitabilmente creava un conflitto. L’uomo di Jesi è una figura lontanissima dagli stereotipi della letteratura sportiva. Un condottiero che ha saputo farsi amare ma che è riuscito a farsi soprattutto temere. Avere a che fare con lui non era facile. Si accendeva facilmente. Bastava un passaggio fuori misura, una parola fuori posto. A volte anche meno. Un giorno, durante un allenamento con la Sampdoria, Vialli si era rivolto al capitano chiamandolo «Mancini». Non «Mancio». Non «Roberto». Pronunciare il suo cognome sottintendeva un tono di sfida. O almeno così era per lui. Tanto che non aveva parlato a Gianluca per giorni interi. La polemica, anche a mezzo stampa, è stata una costante di una carriera che ha alternato giocate sopraffine e litigi, tocchi leggeri come il velluto e parole pesanti come pietre, vittorie impensabili e sconfitte dolorose. Tanto che ancora oggi non si riesce a capire se il suo carattere sia stato il suo punto di forza o il suo tallone d’Achille. Una peculiarità che ha trasformato uno dei talenti più moderni del calcio in un eterno corsaro, in un uomo destinato a stare all’opposizione pur potendo finire al governo. Non è un caso che fra il 1990 e il 2000 ci sono state soltanto due squadre che sono riuscite a soffiare la vittoria a Juventus e Milan: Sampdoria e Lazio. Ossia le due squadre dove ha giocato Mancini. 

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