Come lo Zenit ha cambiato Marchisio

La Russia lo ha ripulito da rimpianti e incertezze

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Oltre sei milioni e il dieci sulle spalle: ingaggio e numero di maglia. Un valore assoluto, il primo, a garantire a se e agli altri d’essere ancora un calciatore di prima fascia, un omaggio il secondo, in onore  di un grandissimo compagno, Del Piero, costretto anche lui in qualche modo alla migrazione forzata: dell’annuncio di Claudio Marchisio allo Zenit i giornali italiani selezionavano questo, assicurandosi di indicare, in chiusura d’articolo, che lì in Russia c’era Scanavino, preparatore atletico ad elastico dello Zenit e dell’Italia di Mancini, pronto a reintegrare il calciatore e a renderlo utile tanto alla causa russa quanto alle necessità di una nazionale in modalità cantiere aperto. La voglia di sentirsi ancora un professionista e l’interesse forte dello Zenit, il cui direttore, Ribalta, con un passato nello scouting bianconero, ben sapeva dell’opportunità di ingaggiare un atleta e un uomo sopra la media: queste le motivazioni indicate da Marchisio a chi lo aspettava in un campionato, per così dire, più europeo.

C’è però qualcosa che colpisce chi scrive all’interno di una scelta meno scontata ed usuale di quanto si possa pensare: un elemento è dato dalla riflessione, un altro da un’ammissione del protagonista di questa storia.

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