Il gioco di Sarri: da dove arriva e dove dovrà andare

Non è il Pep Guardiola di noialtri

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Maurizio Sarri non è il Pep Guardiola di noialtri. Perdonate questa comparativa così, subito a inizio articolo, ma che abbiate creduto o no come ha creduto la Juve all'approdo dell'allenatore più famoso del pianeta diventa irrilevante. Notate bene: il più famoso, perché il più bravo - nel calcio - è sempre questione di dimostrarsi di anno in anno. Come tecnico appunto, o come singolo calciatore, o come squadra. Persino come società (e la Nuova Juve con tre direttori generali e un vicepresidente operativo non fa eccezione).

Circa la bravura, Sarri non è questionabile. Circa il livello finale, c'è a questo punto enorme curiosità, nel fascino e nella diffidenza, nella voglia di gioire ancora come nella paura del dolore. Ma, per l'appunto, Sarri e Guardiola c'entrano poco l'uno con l'altro anche quando si scende sul terreno del gioco, delle sfere concettuali attraverso le quali annientare l'avversario e quindi vincere convincendo. In questo senso Maurizio Sarri è meno open minded e più legato ai concetti di sistema e di ruolo, in buona chiave evolutiva anni ‘90. Sarri è per la specializzazione di tutto questo, Guardiola è un distruttore di luoghi comuni, primi tra tutti quelli culturali sui quali si è fondata la crescita calcistica dei singoli calciatori. Il catalano ne è consapevole e ritiene di poter ottenere di più chiedendo ai suoi di ragionare con una prospettiva diversa. Sarri, invece, è il 90 che deve diventare 100 e può diventare 110: uno più uno più uno uguale cinque. Non molto diverso, per esempio, da Antonio Conte con il quale riteniamo abbia in fondo molte più affinità: sono le meccaniche e la confidenza con la posizione, le mansioni e le giocate a fare la differenza. Tanto più se la specializzazione di uno si unisce con la contemporanea specializzazione e sublimazione del resto dei compagni in campo.

Guardiola no, Guardiola è mellifluo. Guardiola è sempre in sfida con se stesso. Guardiola è ricerca. E allora: chi rischia di più alla fine? Impossibile rispondere. Sicuramente rischia meno chi riesce a convincere i propri giocatori che la perfezione esiste ed è sempre visibile come traguardo. In pochi ne hanno preso nota: Sarri ha fatto faville in Serie C con il 4231 stile Francia ‘98 per poi emergere fino alla Serie A con il rombo e due punte. A Napoli perfeziona il 433 sui picchi dei giocatori a disposizione. Ma a Torino dovrà portare soprattutto la consapevolezza che a volte servirà sporcarsi le mani rinunciando all'astratto: un po' di imperfezione non guasterà, per non guastare un legame sulla carta controverso come quello tra l'allenatore operaio e la società dell'elegante capitalismo italiano. 

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