Sempre il solito Conte

Il lupo perde il pelo, ma non il vizio

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Pochi mesi prima di separarsi, nel pieno dell’estate, Antonio Conte avvertiva la Juventus di come non fosse possibile «sedersi con dieci euro in un ristorante da cento». L’addio venne giustificato, quindi, con le poche ambizioni del club. Da quel momento in poi però i bianconeri vinsero altri sei campionati, cinque Coppe Italia, quattro Supercoppe e sfiorarono la Champions due volte. Le ragioni furono poi puntualmente svelate con l’emergere di chiare questioni (col)laterali: la non più famelica voglia di vincere e le più probabili diverse vedute con il presidente Andrea Agnelli – con il quale, appena avuta l’occasione, Conte si è beatamente mandato a benedire.

Motivazioni che ritornano, come un’onda, in queste ultime ore che hanno portato alla fine della sua esperienza sulla panchina dell’Inter. Meno di due anni dopo quel 2 giugno, giorno in cui l’allenatore leccese sbarcò a Milano tra i dubbi e le remore soprattutto di chi volgeva lo sguardo al suo passato, l’ambizione e le divergenze con la dirigenza hanno bloccato un progetto partorito tra mille dolori, ma che sembrava essere decollato dopo il trionfo di neanche un mese fa. Così non è stato, ma non si può dire che sia una sorpresa. Non più di tanto, perlomeno.

In poco meno di settecentotrenta giorni Conte ha riportato quel trofeo che in casa nerazzurra mancava da undici anni (e che da nove, soprattutto, veniva tenuto nella cassaforte bianconera). Il tutto per la cifra di poco meno di trecento milioni di euro spesi – ingaggi esclusi – dalla famiglia Zhang. Niente di strano, d’altronde: quando si invitano a cena fuori allenatori di un certo calibro si deve tener conto anche del coperto. In questo caso la richiesta ha riguardato calciatori funzionali al gioco, tanto criticato quanto vincente.

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