L'allenatore leccese è rimasto juventino dentro
Come tutti i pugliesi che hanno fatto carriera al Nord, Antonio Conte è guidato da un demone invisibile e in quanto tale pericolosissimo: l’arrivismo. Il dio Kairos, sembra quasi di vederlo, lo accompagna costantemente suggerendogli: «Sfrutta il momento propizio». Una frase scolpita nel cuore di Conte.
Cosa aspettarsi, d’altronde, da uno che in meno di un decennio è passato dall’essere un simbolo della Juventus – prima come giocatore, poi come allenatore – all’essere il simbolo della rinascita nerazzurra (con tanto di videoclip di presentazione la cui descrizione, non a caso, recita: we have two entities with the same objective and outlook – that is to win). Il disincanto dell’allenatore pugliese è la più pura manifestazione del nichilismo superomistico. Le sue dichiarazioni, pre e post-partita, sono come il sintomo di una malattia profonda, di un’ansia di insuccesso tipica della nostra epoca. Conte è l’uomo nuovo. Ma è rimasto ancorato al passato.