IL RICORDO

Ciao Pierino Prati: beatlesiano che stese l'Ajax e non perdeva le finali

Il ricordo di Bruno Longhi

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All’anagrafe era proprio Pierino, non il diminutivo di Piero. Così aveva deciso papà. E Pierino fu. Ora anche lui, il “Pierino la peste” dei mitici anni dello splendore calcistico della Milano da bere, se n’è andato. Tre giorni dopo Mario Corso. Due numeri 11, entrambi con i calzettoni arrotolati sulle caviglie. Ma diversi, profondamente diversi nelle caratteristiche tecniche, ma forse uguali nel carattere. Entrambi di poche parole. Pierino Prati era uno dei tanti figli della zona Nord di Milano che veniva setacciata dagli osservatori rossoneri in cerca di talenti. Era nato a Cinisello Balsamo, non lontano dai quartieri per niente residenziali dove erano cresciuti altri prodotti come lui del vivaio milanista: i vari Trapattoni, Trebbi, Noletti, i tre Maldera.

A Milanello c’era però arrivato per un provino grazie allo zio. Aveva forza, senso del gol ma anche una pazza idea di voler fare il portiere, come da bambino. Nils Liedholm, a quei tempi allenatore delle giovanili, lo prese sotto la sua ala protettiva. Lo sgrezzò, limandone i difetti, e gli consigliò di fare l’ala sinistra, ruolo che meglio gli si addiceva per via di quella falcata lunga e poderosa.

Pierino era un beat o se preferiamo un beatlesiano. Portava i pantaloni attillati, i capelli lunghi, le camicie a fiori, come si usava allora. Come lo vide agghindato così, Paron Rocco finse di scambiarlo per un cantante. ”Portemelo via”-ringhio’ in triestino-. Ma scherzava, e come se scherzava. Perchè Pierino era l’insostituibile terminale offensivo che tramutava in oro i millimetrici lanci al bacio che Gianni Rivera gli paracadutava dalla tre quarti.

Pierino partiva, il pallone atterrava davanti ai suoi piedi, e lui in piena corsa, di destro o di sinistro, lo scaraventava in porta. E San Siro esplodeva. Uno schema semplice, efficace ed esaltante. Fece 15 gol nella stagione dello scudetto del '68. Ed essendo il più giovane nell’attempata compagnia rossonera, ad ogni centro gli toccava offrire champagne ai boss dello spogliatoio. Era un rito, graditissimo, al quale si sottoponeva volentieri.

Era il suo momento. Che divenne magico nella stagione successiva culminata con il successo in Coppa dei Campioni.
Prima della finale di Madrid, aveva saputo essere decisivo nella doppia sfida col Celtic: 0-0 a Milano nel gelo polare di San Siro imbiancato da una furiosa nevicata. E 1-0 a Glasgow grazie ad un suo gol in contropiede dopo pochi minuti, che i veterani dell’insuperabile retroguardia rossonera, seppero proteggere con il cuore in gola, con le unghie e con i denti, fino al Novantesimo.

E poi, dopo la soffertissima semifinale con lo United, eccoci all’epilogo trionfale al  Bernabeu: 4-1 all’Ajax, dell’emergente Cruijff, e Pierino che colpisce un palo sullo 0-0 ne fa addirittura 3. Un record per un calciatore italiano. Roba da portarsi a casa il pallone. Ma a quei tempi tutti quanti ignoravamo le usanze anglosassoni.

Ma il suo hat-trick (l’inglese ora lo uso io) rimane nella storia. Come un altro particolarissimo record di cui andava fiero ed orgoglioso: quello di non aver perso nessuna delle 7 finali disputate. Purtroppo, e nonostante i 7 gol in 14 partite-di cui uno bellissimo e acrobatico in tuffo contro la Bulgaria - non ha avuto in azzurro quelle soddisfazioni che un simile bomber avrebbe meritato. Colpa di nessuno. O molto più banalmente di un certo Gigi Riva.
Ciao Pierino.
 

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