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Italrugby: vent'anni di delusioni, ma l’uscita dal Sei Nazioni non è così semplice

La bordata del ‘Times', che chiede l'esclusione degli Azzurri dal Torneo, suona come una provocazione: l'ipotesi di un'uscita è però molto remota e i motivi sono molteplici

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L’attacco del ‘Times’, attraverso la penna di uno dei suoi giornalisti più autorevoli, Stuart Barnes, è stato duro, inequivocabile: “È ora di buttare fuori l’Italia dal Sei Nazioni”. Ancorché argomentata soprattutto dal punto di vista delle motivazioni sportive, quella di Barnes è comunque di un’opinione: è molto difficile infatti che il comitato del Torneo, che accettò l’Italia in una storica riunione nel gennaio 1998 e permise il suo esordio a partire dal 2000, decida a favore di un’espulsione degli Azzurri. I motivi sono molteplici, dalle immancabili ragioni economiche a quelle legate alla necessità di mantenere l’appeal del Torneo e della stessa palla ovale al di là delle ‘solite’ oasi rugbistiche europee di Gran Bretagna, Irlanda e Francia. Se l’Italia perdesse il Sei Nazioni, poi, sarebbe un colpo durissimo, forse letale per il movimento ovale del Bel Paese. È anche giusto, però, guardare la situazione da un punto di vista oggettivo e cercare di capire perché più di qualcuno, non solo in Inghilterra, spinga per una ‘retrocessione’ azzurra.

Dopo l’esordio vincente (a sorpresa) contro la Scozia nel 2000, l’Italia ha giocato altre 102 partite del Sei Nazioni nei vent’anni successivi, vincendone solo 11 (portando quindi a 12 il totale complessivo) e pareggiandone una. Molte delle sconfitte sono state definite ‘onorevoli’, per il livello generico della prestazione o per aver giocato punto a punto fino alla fine, ma si tratta pur sempre di 89 partite perse. Un’enormità. È quasi paradossale, inoltre, che dal 28 febbraio 2015, giorno dell’ultima vittoria nel Torneo (in trasferta contro la Scozia), l'Italia abbia perso tutte le 25 partite successive sotto la guida di tre diversi commissari tecnici, Jacques Brunel, Conor O’Shea e l'attuale ct ad interim Franco Smith. L'unico risultato significativo negli ultimi anni è stato raccolto fuori dal Sei Nazioni, quando l'Italia ha battuto il Sud Africa nel 2016: un successo purtroppo isolato. Anche gli spettatori casuali sembrano essersi allontanati dalla palla ovale: dopo aver vissuto un discreto periodo di popolarità fra il 2007 e il 2013 (le uniche due edizioni in cui gli Azzurri hanno colto due successi), gli addii alla spicciolata di campioni dal forte impatto mediatico come i fratelli Mauro e Mirco Bergamasco, Andrea Lo Cicero e Martin Castrogiovanni, ancor oggi protagonisti di programmi tv o spot pubblicitari, hanno avuto come conseguenza una graduale perdita di popolarità dello sport. Non sono bastati il talento e il carisma di Sergio Parisse, storico capitano dell’ultimo decennio considerato tra i più grandi di giocatori di tutti i tempi, per ridare spinta nella cultura popolare agli Azzurri. A tutto ciò si aggiunge anche il calo degli spettatori nelle partite del Sei Nazioni giocate all’Olimpico: la dimostrazione definitiva che, nello sport professionistico, vincere è fondamentale.

Basta tutto questo per uscire dal torneo? La risposta, al di là delle opinioni, non può non tener conto di fattori esterni al pur importante risultato sul campo. Nonostante i malumori, l’uscita dal Sei Nazioni non è semplice e non può sicuramente arrivare da un giorno all’altro. Il motivo principale è nella natura stessa del Torneo: diversamente da quanto accade in altri sport si tratta infatti di un evento privato, non organizzato direttamente né dalla federazione mondiale (World Rugby) né da quella europea (Rugby Europe). Il board del Sei Nazioni gestisce anno dopo anno ciascuna edizione, controllandone tutti gli aspetti, dai calendari alle partnership economiche. Nel 2019 World Rugby ha avanzato la proposta di un torneo mondiale che comprendesse il Sei Nazioni e prevedesse uno spareggio, a cadenza biennale, per la nazionale con meno punti all'attivo. Proprio il comitato del Sei Nazioni, però, si è opposto fin dal primo momento rivendicando l'indipendenza del torneo stesso. Non molto tempo dopo la proposta è stata ritirata. Il secondo motivo per cui l'Italia non uscirà almeno adesso dal Sei Nazioni è prettamente sportivo: al momento non esistono nazionali europee più qualificate di quella azzurra per un ingresso nel Torneo: se prendiamo in esame il Rugby Europe Championship, conosciuto impropriamente come ‘Sei Nazioni B’ e organizzato dalla federazione europea, l’unica nazionale che pare avvicinarsi al livello azzurro è la Georgia, che però ha perso entrambi gli scontri diretti (nel 2003 e nel 2018) e nella sfida più recente ha perso 28-17 ammorbidendo il divario solo nel finale, a giochi ormai fatti. Altre nazionali come Portogallo, Spagna, Russia e Belgio sono in crescita ma ancora lontanissime, a livello di movimento, dall’Italia. Ci sarebbe anche la Romania, nazione con buona tradizione ovale, ma dall'avvento del professionismo il movimento romeno ha raccolto pochi risultati interessanti e negli ultimi anni, in particolare, è piombato in una forte crisi. Uscendo dall'Europa, inoltre, l'Italia ha recentemente dimostrato una forte superiorità contro Canada e Namibia, affrontate ai Mondiali, nazionali sulla carta allo stesso livello, se non più forti, di quelle dei Rugby Europe Championship. Anche l’idea di promuovere un torneo fra nazionali allo stesso livello dell’Italia è quantomeno complesso: gli Azzurri se la giocherebbero alla pari con le isole del Pacifico (Fiji, Samoa, Tonga) o con l’emergente Giappone, ma dal punto di vista logistico sarebbe una soluzione quasi impraticabile.

C’è poi, inevitabilmente, l’aspetto economico: senza i ricavi del Sei Nazioni il movimento rugbistico italiano, la cui nazionale è la massima ma non unica espressione, collasserebbe e dovrebbe letteralmente ricominciare da zero. Il problema economico varrebbe anche per le altre partecipanti in caso di ritorno al Five Nations: un torneo con un terzo delle partite in meno (da 15 a 10 i test match complessivi) e ristretto dal punto di vista geografico avrebbe sicuramente meno appeal nei confronti di sponsor e tv.

Questo significa che la situazione resterà la stessa per i prossimi anni, con l’Italia a fare da mero sparring partner a nazionali in continua crescita? Difficile da pronosticare, in realtà, solo il tempo potrà dare una risposta. Chissà però che la provocazione del ‘Times’ non riesca a pungere nell'orgoglio ridando spinta a un movimento che, soprattutto a causa degli insuccessi della propria nazionale, sembra aver perso mordente negli ultimi anni.

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